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La lingua di papa Francesco

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© Vincenzo Pinto/ AFP

Finesettimana.org - pubblicato il 18/08/15

Più poesia che ortodossia dogmatica

di Massimo Faggioli*

Francesco d’Assisi non è solo uno dei santi più famosi e una delle figure più leggendarie della Chiesa. Viene anche considerato uno scrittore pionieristico. Gli studiosi ritengono il suo Cantico delle creature uno dei primi testi della storia della letteratura italiana “moderna”. E come il santo di cui ha preso il nome quando è stato eletto vescovo di Roma nel 2013, anche papa Francesco sa usare la lingua in maniera molto efficace e coinvolgente.

La lingua madre del papa argentino è lo spagnolo, naturalmente, e questo aggiunge alla sua perfetta padronanza dell’italiano un accento accattivante. Non è altrettanto sciolto in altre lingue – come l’inglese, il francese e il tedesco – come erano invece Benedetto XVI e Giovanni Paolo II. Tuttavia c’è una differenza linguistica sostanziale che lo caratterizza rispetto ai suoi due più recenti predecessori.

La lingua di Francesco è molto più ricca di metafore, di proverbi e di espressioni idiomatiche. Tende a creare nuovi verbi e nomi (come per esempio misericordiare e rapidacion, “velocizzazione”). La lingua di questo papa settantottenne è molto più figurata ed espressiva che informativa. È una lingua non accademica, perché esistenziale, derivante dai molti anni di esperienza pastorale come prete, insegnante e vescovo. Francesco è un “language pope” (un papa che introduce un linguaggio nuovo) così come il Concilio Vaticano II è, secondo lo storico gesuita John O’Malley, un “language event” (un evento importante per il linguaggio nuovo rispetto ai precedenti concili). La lingua non è solo uno strumento, ma una forma distinta per la teologia, essa dà forma alla teologia. Il nuovo stile di discorso introdotto dal Vaticano II era il mezzo di trasmissione di un nuovo messaggio. Ad un particolare tipo di lingua corrisponde un tipo di teologia. La differenza tra Benedetto XVI e Francesco è più linguistica che dottrinale. Ma è una differenza molto significativa che cambia sensibilmente il modo in cui la dottrina è pensata, insegnata e ricevuta.

A differenza dei suoi predecessori, Francesco aveva un curriculum di insegnamento che si concentrava più sulla letteratura che sulla filosofia. I suoi biografi raccontano di come nell’agosto 1965 avesse organizzato una conferenza del famoso scrittore argentino Jorge Luis Borges per i suoi studenti a Santa Fè. Dal 1964-1965 il futuro papa insegnò Cervantes, letteratura gauchesca (molto popolare in Argentina, Brasile e Uruguay tra il 1870 e il 1920) e il poema epico Martin Fierro di José Hernandez. Sottolineò l’importanza di questa esperienza dell’insegnamento della letteratura nell’intervista che diede due anni fa ad Antonio Spadaro sj, direttore della rivista gesuita Civiltà Cattolica (tradotta e pubblicata simultaneamente su diverse altre riviste gesuite).

Molte persone che seguono e osservano da vicino papa Francesco notano, nel suo modo di usare parole e immagini, un parallelo nello scrittore e regista italiano, ora scomparso, Pier Paolo Pasolini (1922-1975). Pasolini era un intellettuale impegnato e un comunista in disaccordo con la linea di partito del Partito Comunista Italiano (PCI). Emarginato in quanto gay dall’ortodossia ultra-conformista dell’Italia del dopoguerra, era un “ateo credente” in cerca di Gesù. Dedicò una poesia e il suo film più famoso, Il Vangelo secondo Matteo (1964, probabilmente uno dei migliori film su Gesù) a Giovanni XXIII, un papa di cui lesse e analizzò il diario spirituale, Il giornale dell’anima, (in un modo non molto dissimile da Hannah Arendt, che definì Roncalli “un papa cristiano sul trono di Pietro”). Come papa Francesco, Pasolini fu ispirato dal santo di Assisi. Fu in questa località che, nel 1942, lesse il Vangelo di Matteo per la prima volta. Aveva un animo mistico e la cosa non era in contrasto con la sua passione per la giustizia sociale e per l’istruzione come strumento di liberazione. La sua lingua era profondamente esistenziale, e scoprì e trasmise magistralmente l’esperienza della gente attraverso i dialetti e le espressioni popolari, che considerava pure e libere da sistematizzazioni.

Pasolini trovò nelle periferie urbane un’umanità che si era perduta nella transizione dalla cultura contadina alla società industriale del XX secolo. La sua passione per i poveri e i senza diritti era una passione per una realtà che poteva ferire, ma anche aprire l’anima. La sua ostilità verso l’ipocrisia del cristianesimo moralistico divenne una formidabile sfida alla meschina versione borghese del cattolicesimo italiano tra la Seconda Guerra Mondiale e il 1975, quando fu assassinato. Un assassinio che rimase uno dei molti casi politico-criminali irrisolti dell’Italia contemporanea. La ricerca di Gesù era per Pasolini radicata nella sua critica della modernità come disumanizzante – in maniera notevolmente simile a ciò che papa Francesco ha chiamato “il paradigma tecnocratico” nella sua enciclica Laudato si’.

Pier Paolo Pasolini e Francesco, nonostante varie differenze, hanno un approccio molto simile al linguaggio, inteso come un modo per liberare il Vangelo dalle molte stratificazioni ideologiche derivanti dalle contaminazioni tra il cristianesimo e la civiltà occidentale. L’analogia tra Pasolini e Francesco può essere una delle ragioni nascoste per cui certi cattolici italiani trovano l’attuale papa così seducente, al contrario dell’ “establishment” economico e politico.

I media cattolici italiani e quelli vaticani hanno recentemente “riscoperto” Pasolini e questa è un’indicazione di una profonda convergenza tra Francesco e l’ultimo intellettuale profetico e popolare italiano. Il problema della lingua è centrale se vogliamo capire Francesco. Non è solo un problema per coloro che devono tradurre le parole di Francesco in altre lingue (come ho cercato di spiegare nel mio articolo dell’8 gennaio in Global Pulse, Deciphering the Pope’s Argentine Italian). È anche un problema teologico perché la lingua di Francesco richiede analisi poetica e linguistica, e non solo buona traduzione.

Un libro recentemente pubblicato su teologia e poesia (Esodi del divino, 2014) da Marcello Neri, un teologo italiano che insegna in Germania, getta una luce sull’uso della lingua poetica per la teologia. Nella “cassetta per gli attrezzi” della teologia cristiana (e specialmente cattolica) c’è, ancora oggi, molta più filosofia che poesia. Ma il concetto cristiano di logos è anche poetico, non meno che filosofico. E nella Bibbia si trova molta più poesia che filosofia. La teologia ha bisogno di più poesia, specialmente oggi. Questo perché l’idea cristiana di logos ha sofferto della stessa crisi che ha afflitto la nozione razionalistica di logos nel mondo occidentale. Il magistero cattolico ha cercato di indirizzare la crisi nella relazione tra fede e ragione (specialmente con l’enciclica di Giovanni Paolo II del 1998, Fides et Ratio e con il discorso di Benedetto XVI del 2006 all’Università di Ratisbona). Ma, usando lo stesso linguaggio della filosofia, l’insegnamento ufficiale cattolico è caduto vittima della stessa debolezza del logos occidentale.

La lingua del magistero cattolico sulla “ragione” ha cercato di dimostrare la razionalità attuale del logos di fede, ma questo non è il problema attorno al quale si gioca il futuro della fede. Il linguaggio poetico non riguarda la certezza dell’ortodossia dogmatica. Tale certezza non porta salvezza. “La bellezza asettica della religione istituzionale non trasmette più bellezza – e questo è il motivo per cui la Chiesa come tale non è più capace di essere sponsor delle arti”, scrive Neri. Nel mondo occidentale, la teologia cattolica ha accettato la separazione del logos razionalistico dal logos della fede. La svolta razionalistica del cristianesimo e la susseguente crisi del razionalismo occidentale hanno oscurato il logos poetico del Vangelo di Gesù Cristo. Francesco ha mostrato di essere un vero papa globale e una ragione chiave è il fatto che la sua lingua non è rinchiusa nel classico discorso occidentale sul logos e sulle sue conseguenze sulla teologia cattolica. La globalizzazione del cattolicesimo subisce un’accelerazione per il fatto che il papa e il resto della Chiesa trovano nuove espressioni linguistiche per una fede sempre antica, sempre nuova.

*teologo, insegna alla University of St. Thomas – Minnesota (USA)

Articolo originariamente apparso su Global Pulse 

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