Chi lo commette o si ama troppo o si ama troppo poco
L’invidia non può trasparire o essere dichiarata perché questo equivarrebbe a una dichiarazione pubblica di inferiorità. Costretto a rodersi nell’oscurità, l’invidioso è soprattutto un sofferente.
Scrive Gregorio Magno: «Caino finì per uccidere suo fratello perché vide disprezzato il proprio sacrificio e s’infuriò che Dio avesse accettata la vittima di Abele, preferendolo a lui. Il vederlo migliore di sé gli sembrò una cosa tanto orribile che lo stroncò per farla finita. Così pure Esaù perseguitò il fratello, perché, perduta la benedizione di primogenito, che del resto aveva venduta per mangiare le lenticchie, sospirava per essere diventato inferiore a quello che era nato dopo di lui. Per la stessa ragione i fratelli di Giuseppe lo vendettero agli Ismaeliti di passaggio, per impedire che diventasse da più di loro, conforme avevano saputo per rivelazione. E Saul perseguitò Davide suo suddito, scagliandogli contro la lancia, perché vedendolo ogni giorno più virtuoso e fortunato, ebbe paura che diventasse più grande di lui. Perciò è piccolo chi si lascia uccidere dall’invidia, poiché, se non fosse inferiore, non patirebbe per il bene di un altro» (Moralia V,84).
Per quanto sentito come male pericoloso e difficile da estirpare, l’invidia manca negli elenchi più antichi dei vizi capitali: manca in Evagrio Pontico mentre in Cassiano compare solamente come “figlia” della superbia. Invece Gregorio Magno la introduce nel settenario dei vizi e le assegna un posto particolare come seconda dopo la superbia. Del resto Gregorio non limitava il suo sguardo e la sua preoccupazione pastorale solamente al mondo monastico, come Evagrio, ma lo apriva al mondo e lì poteva vedere i conflitti e le discordie provocate dall’invidia. Nella vita sociale, nelle famiglie, nelle corti, nelle scuole, nei mercati, nelle città, l’invidia si mostrava fattore di disgregazione sociale e di rottura del legame di solidarietà. La dimensione sociale dell’invidia fu colta con acutezza da Gregorio.
L’etimologia lega l’invidia al videre (“vedere”): invidere, ovvero, avere occhio cattivo (Mt 20,15: «hai l’occhio cattivo perché io sono buono?»), guardare l’altro con occhio cattivo, fino a non volere più vedere l’altro, ovvero a volerne la sparizione: l’invidia diviene omicida. La tradizione parla dell’accecamento degli invidiosi, e Dante, nelPurgatorio (XII,67-72) li dipinge come gente a cui sono state legate le ciglia con il fil di ferro. L’invidioso arriva a odiare, ma deve sempre dissimulare il suo odio: l’invidia non può trasparire o essere dichiarata perché questo equivarrebbe a una dichiarazione pubblica di inferiorità. Costretto a rodersi nell’oscurità, l’invidioso è soprattutto un sofferente.