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Paolo VI, una eredità da riscoprire

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Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 06/08/15
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A conoscerlo da vicino, era del tutto diverso da come veniva dipinto“…non si deve credere che dopo qualche tempo si ritornerà quieti e devoti o pigri, come prima; no, il nuovo ordine dovrà essere diverso, e dovrà impedire e scuotere la passività dei fedeli presenti alla Santa Messa; prima bastava assistere, ora occorre partecipare; prima bastava la presenza, ora occorrono l’attenzione e l’azione; prima qualcuno poteva sonnecchiare e forse chiacchierare; ora no, deve ascoltare e pregare…”.

Era il 17 marzo del 1965. Da dieci giorni era stato autorizzato l’uso della lingua italiana in diverse parti della Messa. E tutto era cominciato in un clima di grande entusiasmo, per la novità rivoluzionaria, però anche in una grande confusione, perché si era riusciti a spostare gli altari solo in alcune parrocchie, e perché molti anziani non ce la facevano ad adattarsi al nuovo rito e soprattutto alle rumorose chitarrate dei giovani. Ma chi era che parlava così? Con quel linguaggio diretto, immediato? E quel tono apparentemente burbero, severo, ma in realtà accattivante, tutto rivolto a entrare nei cuori di quanti ascoltavano?

Appunto, sapete chi era? Quanti lo hanno riconosciuto di primo acchito? Era Paolo VI, sì, Paolo VI. Proprio il Papa che veniva considerato perennemente triste, pessimista, freddo, distaccato, troppo razionale, troppo politico, troppo diplomatico. E lui sapeva di tutte queste “etichette” che gli avevano attaccato addosso, e ne soffriva. Ma si rendeva anche conto che, per la sua stessa missione alla guida della Chiesa, e in quel momento storico ed ecclesiale, era destinato inevitabilmente a rappresentare un “segno di contraddizione”.

Eppure, a conoscerlo da vicino, era del tutto diverso da come veniva dipinto. Infatti, era uno che aveva dentro lo stupore del contemplativo di fronte alle grandi cose create da Dio. E’ stato il primo Papa che ha dedicato un documento ufficiale alla gioia, “Gaudete Domino”, in quanto virtù propria della religione cristiana, propria dei seguaci del Vangelo. Amava profondamente l’uomo, credendo in lui, nella sua capacità di riscatto, e aveva perfino tentato una sintesi ardita tra spirito moderno e tradizione cattolica. E per questo, nella sua prima enciclica, “Ecclesiam suam”, aveva scelto la via del dialogo – richiamandosi al “dialogo della salvezza”, intrecciato da Dio con l’umanità – per la nuova Chiesa uscita dal Concilio Vaticano II.

E anche a rileggere il suo pontificato, passo dopo passo, e senza paraocchi ideologici, ne verrebbe fuori una immagine totalmente diversa da quella che avversari esterni (il mondo laicista) e interni (i contrapposti gruppi cattolici, integralisti e progressisti) cercavano di attribuirgli. Dalle mani di Giovanni XXIII, papa Montini aveva raccolto un Concilio ancora aperto – pieno di fermenti, marcato da divisioni, con una rotta da precisare – e lo aveva condotto in porto. Senza tradire assolutamente le intenzioni originarie di Roncalli, e solo cedendo in qualche compromesso di troppo per raggiungere su ogni documento il più vasto consenso possibile; ma riuscendo comunque a sciogliere nodi complicatissimi, sulla libertà religiosa, sull’ebraismo, sulla famiglia, sull’atteggiamento verso la guerra.

Il post-Concilio si avviò in uno dei periodi sociali e culturali più turbolenti della storia moderna. Il dissenso, sotto la spinta sessantottina, entrò anche nella Chiesa, svuotò seminari e conventi. Ci furono contestazioni durissime, sul celibato ecclesiastico e specialmente sull’”Humanae vitae”, l’enciclica sulla regolazione delle nascite. Paolo VI venne discusso, disobbedito, perfino offeso. Tuttavia, la sua prudenza e il suo realismo evangelico, ma anche il suo coraggio, salvarono l’unità ecclesiale. E gli permisero di realizzare tutta una serie di riforme, da quella liturgica a quella della Curia (in particolare del Sant’Offizio) e della Corte pontificia (con l’abolizione dei corpi militari e l’adozione di uno stile di maggiore semplicità e sobrietà; il Papa aveva già rinunciata alla tiara, donandola ai poveri). E poi, la creazione del Sinodo dei Vescovi e degli organismi del dialogo.

Il Concilio aveva plasmato una Chiesa più spirituale, più missionaria, più evangelica, più ecumenica. Una Chiesa che usciva dai “sacri recinti” per dialogare con gli uomini, per compiere con loro un cammino comune, e, nello stesso tempo, per contribuire alla soluzione dei conflitti nel mondo, per promuovere la pace tra i popoli, una maggiore giustizia. E i viaggi – Paolo VI fu il primo Papa a salire su un aereo – tradussero concretamente quegli obiettivi. Come l’incontro con il patriarca ortodosso Atenagora a Gerusalemme. La visita alle Nazioni Unite: “…noi celebriamo qui l’epilogo di un faticoso pellegrinaggio in cerca d’un colloquio con il mondo intero”. E poi, l’immersione nella tragica realtà dei Paesi poveri, a cominciare dall’America Latina. Le peregrinazioni in Asia, in Africa, in Oceania: “Ci rechiamo laggiù come Pastore e missionario, come pescatore di uomini…”. Da lì, da quelle esperienze, nacque l’ispirazione per grandi documenti sociali (come l’enciclica “Populorum progressio”), per ampliare le prospettive dell’azione evangelizzatrice (l’enciclica “Evangelii nuntiandi” ribaltò i vecchi schemi, la missione diventava impegno di tutta la Chiesa, di tutti i cristiani), e anche per sollecitare una nuova presenza dei cattolici nella vita politica (con l’esortazione apostolica “Octogesima adveniens”).

Insomma, Paolo VI non fu per niente un Papa conservatore, chiuso alle novità. Nella bufera in cui la Chiesa venne a trovarsi, seppe tener ferma la barra, e difendere il Credo, la legge morale e la dignità della persona umana. E fu un vero riformatore, perché non considerò mai i documenti del Vaticano II come dei punti di arrivo, bensì di partenza verso traguardi sempre più avanzati.

E se anche Montini non fosse stato sufficientemente “compreso” durante il suo lungo tormentato pontificato, a entrare nel “mistero” di quest’uomo di Dio basterebbero gli ultimi frammenti della sua vita. La lettera che scrisse agli “uomini delle Brigate Rosse”, quando li scongiurò in ginocchio di non uccidere Aldo Moro: un gesto di grande umiltà ma anche di sfida in nome dell’amore evangelico, e senza comunque cedere in niente al ricatto del terrore, della violenza. Poi, nei funerali al Laterano, l’esplosione in quel lamento dagli accenti biblici verso Dio per non aver esaudito la sua supplica, per non aver salvato l’”amico”. E infine, quando il 6 agosto del 1978 sussurrò per l’ultima volta il Pater noster prima di chiudere gli occhi.

E adesso, dopo la beatificazione, ben venga anche la celebrazione – il prossimo 8 dicembre – del 50° della chiusura del Concilio, di quando Paolo VI lanciò quello straordinario invito all’umanità: “Per la Chiesa cattolica nessuno è estraneo, nessuno è escluso, nessuno è lontano. Ognuno, a cui è diretto il nostro saluto, è un chiamato, un invitato; è, in certo senso, un presente”. L’ anniversario sarà così un’occasione provvidenziale per ricordare la figura di Giovanni Battista Montini, e per riscoprire l’eredità che ha lasciato ai suoi successori: a Giovanni Paolo I, una Chiesa che si liberava di ogni contaminazione temporalistica; a papa Wojtyla, l’ansia missionaria; a Benedetto XVI, la ricerca della possibilità di aprire la cultura contemporanea alla fede; a Francesco, la riforma interna e all’esterno una nuova evangelizzazione. L’eredità, appunto, che ha permesso di individuare un po’ tutti i cammini che la Chiesa cattolica ha poi cominciato a percorrere.