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Conta più amare gli altri o avere fede?

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GAIL ORENSTEIN / NURPHOTO

Dimensione Speranza - pubblicato il 03/08/15

Nel momento del giudizio, non sarà domandato agli uomini se hanno creduto...

di Alberto Maggi

Con Gesù, «Dio con noi» (Mt 1 ,23c), cambia il cammino degli uomini. Prima di lui, l’umanità era impegnata in un’incessante ricerca di comunione con un Dio che la religione presentava sempre più lontano, una divinità esigente, che trovava difetti persino nei santi e negli angeli da lui stesso creati: «Ecco, dei suoi servi egli non si fida e nei suoi angeli trova difetti» (Gb 4,18).

Protesi verso il loro Dio, tutto ciò che gli uomini facevano era per il Signore, dal servizio alla preghiera, all’amore per l’altro. E le persone più religiose erano spesso talmente assorbite dal loro Dio da non accorgersi dei bisogni del prossimo.

Con Gesù tutto cambia. La ricerca di Dio con lui è terminata: il Signore non è più da cercare, ma da accogliere e, con lui e come lui, andare verso gli uomini. Essi, infatti, non vivono più per Dio, ma di Dio, un Padre che chiede di essere accolto per fondersi con loro, dilatarne la capacità di amore e renderli così l’unico santuario dal quale irradiare l’amore a ogni creatura.

Dio si è fatto uomo, per sempre, ed è con un uomo che i credenti devono confrontarsi. Per Gesù, ciò che determina la riuscita o meno dell’esistenza, rendendola così definitiva, non è il rapporto che si è avuto con Dio, ma con gli uomini; non è il riconoscerlo e dirgli: «Signore, Signore», ma il compiere la volontà del Padre (cf. Mt 7,21), accogliendo il suo amore e trasformandolo in azioni che comunicano vita.

Per questo, nell’elenco dei comportamenti che, secondo Gesù, rendono impuro l’uomo, non ce n’è uno che riguarda il rapporto con la divinità, il culto, la religione; vi sono, invece, enumerati gli atteggiamenti negativi che danneggiano l’altro: «omicidi, adulteri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie» (Mt 15,19). Similmente, al ricco che gli chiede quali comandamenti osservare per avere la vita eterna, Gesù cita solo quelli che riguardano i doveri verso il prossimo, non quelli – ritenuti importantissimi – degli obblighi verso Dio: «Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai il falso, onora il padre e la madre e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,18-19).

Il messaggio di Gesù diventa, pertanto, universale e abbraccia tutta l’umanità. Non sarà domandato agli uomini se hanno creduto, ma se hanno amato. Non se sono saliti al tempio, ma se hanno aperto la loro casa al bisognoso. Non se hanno fatto offerte al Signore, ma se hanno condiviso il loro pane con chi ne aveva necessità. Chiunque dimostri attenzione verso i bisogni dell’altro e intervenga per aiutarlo, costui entra nella vita definitiva.

Gesù espone tutto questo in una parabola, che si trova unicamente nel vangelo di Matteo (Mt 25,31-46). Gesù si rifà a un’immagine ben conosciuta, quella del giudizio delle nazioni pagane: «Nell’al di là, il Santo – che benedetto sia – prenderà un rotolo della Torah, se lo poserà sulle ginocchia e dirà: "Chi se ne è occupato, venga e riceverà la sua ricompensa"» (Aboda Zara 2a,b). Secondo le credenze del tempo, nel giorno del giudizio, Dio avrebbe consultato il libro nel quale aveva scrupolosamente segnato tutte le azioni compiute dagli uomini, dividendole in positive e negative, e in base a queste li avrebbe giudicati.

Gesù non ha bisogno di alcun registro. Come il pastore separa facilmente le pecore dai capri, così il Signore riconosce chi ha amato e chi no. Come il pescatore sa distinguere i pesci buoni da quelli marci (cf Mt 13,48-49) e il contadino riconosce i frutti buoni da quelli fradici (cf Mt 7,17-19), il Signore distingue subito chi ha la vita e chi ne è privo.

Si riconosce facilmente chi ha orientato la propria vita al bene degli altri e ha speso la sua esistenza a servizio dei propri simili. Le azioni compiute nel corso dell’esistenza, infatti, si imprimono nella persona, segnandola per sempre, nel bene come nel male.

Gesù proclama «benedetti» i giusti che gli hanno dato da mangiare quando era affamato e da bere quando era assetato, che lo hanno accolto quando era straniero, vestito quando era nudo, visitato quando era malato, e che si sono presi cura di lui quando era carcerato (Mt 25,35-36). Costoro non hanno compiuto azioni spettacolari, ma opere accessibili a tutti, che ognuno può compiere: gesti di aiuto e di misericordia verso i più bisognosi ed emarginati dalla società, nei quali il Signore si identifica.

Gesù definisce «giusti» quelli che nella loro vita sono sempre stati pronti a dare una mano, ad alleviare le sofferenze, a condividere le pene, a caricarsi dei pesi degli altri, e rivela che i gesti da essi compiuti verso gli anonimi bisognosi, in realtà erano diretti alla sua persona, suscitando stupore: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare…» (Mt 25,38).

La meraviglia dei giusti rivela che questi non hanno amato per avere dei meriti, e tantomeno perché nell’altro scorgevano il Signore (che non conoscevano), ma hanno amato generosamente e disinteressatamente. Il bisognoso è stato da essi aiutato in quanto tale, e non per una presunta presenza del divino in lui. Per questo entrano nella pienezza della vita: la vita che si è donata è quella che si possiede.

Chi invece è chiuso al bisognoso, chi è centrato solo sulle proprie necessità e non vede quelle degli altri, è uno che distrugge la propria esistenza. La sua capacità vitale è atrofizzata da un egoismo che alimenta solo sé stesso e rinchiude la persona in un sudario mortale.

Dio regala vita a chi trasmette vita. Ma chi non si dona e non dà nulla all’altro si ritroverà non solo a non avere più niente, ma a non essere più nulla. Andrà incontro alla distruzione totale, conseguenza inevitabile per chi, privando di vita gli altri, si esclude dalla vita.

Ecco perché Gesù usa parole severe verso quanti non gli hanno dato da mangiare e da bere, non lo hanno accolto e curato, visitato e ospitato: «Via, lontano da me, maledetti…» (Mt 25,41). Gesù usa la tremenda invettiva «maledetti», che richiama Caino, il fratricida, il primo assassino della Bibbia («Ora sii maledetto», Gen 4,11).

La maledizione non proviene da Dio. Il Padre non maledice, ma benedice («benedetti del Padre mio», Mt 25,34). Sono gli uomini che si sono maledetti, perché non le loro scelte egoistiche si sono chiusi alla vita. Sono maledetti perché hanno legato l’aiuto a chi era nel bisogno, e il loro rifiuto per Gesù equivale all’uccisione: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare» (Mt 25,42).(da Nigrizia, n. 6, 2011, p. 72)

qui l’articolo originale

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