La morte spaventa solo chi vive in solitudinedi Paolo Pugni
Sai perché non prevarranno? Le porte degli inferi intendo. Perché c’è sempre una compagnia che non molla. Perde, cade, s’arruffa. Litiga anche. Ma non molla. E mica perché ha in sé la forza, anzi. Proprio perché è debole. Perché non confida in sé. Ed è così forte che tutto sa volgere al bene, non grazie a sé, ma grazie a Colui per il Quale agisce, con errori, sbandamenti, colpe, ruzzoloni. Sempre rialzata.
Ecco la storia. Tre anni fa –o giù di lì, non ricordo bene- mi scrive su Facebook un curioso signore, vent’anni circa più di me, che avevo incrociato sul socialcoso. Sì perché io con faccialibro ci lavoro e ho quasi tanti amici quanto la mitica Costanza, per altri motivi però. Dunque mi scrive a proposito della mia terrazza, covo di uomini dal 1993, ritrovo estivo per mangiare, fare tana, rivedersi dopo un anno in cui magari ci si è sfiorati, e parlare –da uomini si intende. E no, non di donne, non è il nostro stile, ma di cose che stanno nel cuore. Ad esempio quest’anno s’è parlato di 730 e tasse varie, calcio, motori, Expo, marketing, liturgia ambrosiana (per denigrarla ovviamente), enicicliche, ancora calcio, vino, formaggi, lavoro e altre quisquilie simili. No, neanche di famiglia. E no, non so come stanno le mogli degli amici che si sono alternati nelle quattro sere della XXIII edizione. Mai chiesto.
Torniamo indietro: dunque questo signore mi scrive su Facebook: “Terrazza anche io! Voglio venire!” Bene, dico, vieni e vedi. No, non mi sto montando la testa, ma se devo provare ad essere esempio, beh allora bisogna realmente farlo.
Il signore in questione si chiamava Marco, e da allora non ha più mancato una Terrazza, rallegrandola con il suo egocentrismo adorabile, le sue foto indimenticabili, anche se prolisse come un po’ era lui, e il gelato al pistacchio della Gelateria della Musica di via Pestalozzi a Milano. No, non faccio pubblicità, dico solo che era imbattibile.
Ho usato l’imperfetto perché Marco il 21 luglio se ne è andato, tra le braccia di sua moglie, senza vedere l’alba, così, come un soffio. E lì scatta il gioco della compagnia.
Che c’entra tutto questo? Dove sta la chiusura del cerchio?
Sta nel fatto che questa scomparsa ha scatenato mille reazioni.
La morte ai tempi di Facebook: la sua bacheca e quella della moglie sono diventate un enorme storia di dolori e speranze: e per raccontarlo parto dalle parole del celebrante che, muovendo da questo testo del Vangelo della Messa di esequie, “Siate pronti con la cintura ai fianchi e le lucerne accese”, ha tirato fuori un capolavoro che spiega perché, con persone così accanto, non possiamo perdere nessuna partita.
Marco era un fotografo seriale, come dicevo, scattava a raffica: milioni –non è una iperbole: è conteggio- di scatti come se non fosse mai pago. E il don che dice? Che aveva uno sguardo che non si saziava mai: che cosa cercava nella realtà? Che filo voleva vedere? E che tutte quelle foto non bastavano mai a esaurire la realtà: era forse la ricerca del senso che c’è, in ogni fotogramma, ovunque, c’è sempre e però non si esaurisce mai, non è mai possibile possederlo tutto, perché lì c’è Dio. Non lo riesci a intrappolare, non fermi la vita, ma la devi cercare, nello scatto migliore, devi sempre tenere accesa la lucerna perché siamo sempre in ricerca, oltre la superficie, nella caverna dell’esistenza, per trovare quel filo che finalmente dipana la verità.
E i fianchi cinti? Sono il segno del servizio. Dice il don che ci sono molti modi di servire: nella società di oggi che è deserto, deserto di relazioni, di contatto, servire è costruire reti, anche su Facebook, di amicizie, di contatti, far vedere che ci sei, che ti interessi, che sei sensibile alle persone, che per te contano – Infatti scopri che tutti quelli, tantissimi, che hanno salutato Marco sulla sua pagina gli hanno dato un appuntamento, perché dentro il nostro essere c’è questa verità, che la vita non finisce qui. E attestano che dove c’è un sorriso, una parola quieta, una attenzione sincera, anche se avvolte nello spirito da primedonne – Marco diceva che la mia terrazza era un club di primedonne, che sapevano giocare i propri spazi, e si alimentavano apprendendo gli uni dagli altri l’umiltà- e da logorroici sorrisi, fa breccia, lascia il segno.
E questa compagnia è così forte che prende il socialcoso e lo fa diventare strumento di amicizia vera, sincera, diretta, perché si può essere compagnia a chilometri di distanza, legati da un “mipiace”, così come si può essere deserto per chi abita sul tuo medesimo pianerottolo.
E poiché il nostro dovere è di mostrare l’amore, come diceva un santo a me molto molto caro, tale san Josemarìa Escrivà, se non ci mettiamo la faccia per essere per gli altri la misericordia di Dio e la sua dolcezza, che non esclude ovviamente l’affermazione della verità, che ci stiamo a fare?
Con una compagnia così, di che cosa possiamo mai avere paura?