Intervista al presidente delle Acli e portavoce dell’Alleanza contro la povertà, Gianni BottalicoL’Istat (Istiuto nazionale di statistica) ha cambiato il metodo di indagine sulla povertà con il risultato di ridurre fortemente il numero dei poveri. L’indagine avviene indagando su un campione ridotto ma scientificamente significativo di famiglie (28 mila) distribuite in 500 comuni. Guardando le cifre non si è mai convertito nessuno. La contabilità delle, più o meno gravi, privazioni non sembra attivare i “neuroni specchio”. Come ha detto papa Francesco in Bolivia, parlando con i movimenti popolari, solo i “volti e i nomi” ci «stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo», cioè «cerchiamo l’altro per muoverci insieme». Ma il passaggio formale del numero dei poveri assoluti da 6 a 4 milioni di persone, costituisce un ulteriore elemento destinato a rinsaldare una certa anestesia diffusa davanti allo scandalo della esclusione sociale.
Ne parliamo con Gianni Bottalico, presidente delle Acli e promotore dell’Alleanza contro la povertà.
Il nuovo dato aggiornato dell’Istat non sembra destinato a confermare l’indicazione a non incidere sul clima di fiducia necessaria per la crescita economica?
«L’incidenza della povertà assoluta, giunta a livelli record, si mantiene stabile nella sua gravità. Il Report Istat sulla povertà ha cambiato il riferimento per l’analisi dei dati, dai consumi alle spese, ma anche con questo nuovo sistema di calcolo emerge che la povertà assoluta dall’inizio della crisi è più che raddoppiata. L’Istat stesso riconosce che tra i dati di quest’anno sulla povertà, riferiti al 2014, e quelli dell’anno precedente, riferiti al 2013, il raffronto “non può essere considerato diverso da zero”. Al di là dei metodi di misurazione, rimane il fatto che quello della povertà continua ad essere un fenomeno sociale che mantiene delle dimensioni enormi e di fronte a cui non ci si può permettere di abbassare la guardia. Sarebbe un errore gravissimo, ma mi sembra che neanche tra i professionisti dell’ottimismo ad ogni costo si arrivi a tanto».
Eppure il ministro del lavoro, Giancarlo Poletti, propone 1,5 miliardi di euro in tre anni contro l’esclusione sociale, mentre il premier Renzi dichiara di abbattere le tasse sulla prima casa per 45 miliardi di euro. Non è evidente l’orientamento del governo nel sostenere non tanto i poveri quanto i redditi medi?
«Il ministro Poletti ha aperto un tavolo per la definizione di un Piano di lotta alla povertà e all’esclusione sociale per coinvolgere la società civile. Ha riconosciuto che la lotta alla povertà costituisce la priorità per le riforme delle politiche sociali. Gli intenti e il metodo sono condivisibili. Ma le risorse di cui si parla, 1,5 miliardi in tre anni, non appaiono sufficienti, non consentono di dare il respiro auspicato allo strumento proposto dal Ministero, il Ria (Reddito d’Inclusione Attiva). Il Ria rischia di divenire una sorta di ampliamento della sperimentazione del Sia (sostegno inclusione attiva di precedenti governi,ndr)».
Che idea si è fatto a partire da queste dichiarazioni?
«Come si concilino le cifre esigue, racimolate facendo i classici conti della serva ed in un rigido clima di austerità, per la lotta alla povertà con le improvvise disponibilità di bilancio che consentirebbero una “rivoluzione copernicana”, in materia fiscale, è questione che il governo deve spiegare al Paese, oltreché, come temiamo, all’Europa e alla Germania. Nel caso che il governo intenda “forzare” i vincoli europei, e lo può dimostrare sin dalla prossima legge di stabilità, avrà il nostro incondizionato appoggio. È la sola via che permette di fare contemporaneamente riduzione fiscale, investimenti per il lavoro e lo sviluppo e mantenere livelli di spesa sociale adeguati, che sono gli elementi imprescindibili per alimentare la domanda interna da cui passa la via della ripresa».
E se tale scelta non avvenisse?
«In assenza della forzatura dei vincoli europei, assisteremmo solo ad una riedizione del gioco delle tre carte. Si spostano i pesi da una voce all’altra ma il totale per il bilancio delle famiglie non cambia».
Nell’incontro che avete avuto con Poletti, il ministro ha detto che è importante intervenire sulla riforma del lavoro per ridurre la povertà. Il cosiddetto jobs act è efficace in tal senso?
«Alla fine il jobs act fa quello che prometteva, nel bene e nel male, rimanendo nell’ambito delle regole del lavoro. Ma perché il lavoro incida sulla riduzione della povertà occorre affrontare due altri aspetti: la creazione di nuovo lavoro, e lo si fa mettendo a punto un piano industriale per il Paese ed una politica salariale che si ponga l’obiettivo di adeguare i salari della classe media lavoratrice alle necessità di vita e di cura delle famiglie. Ciò che prolunga la crisi è il ristagno dei consumi: una percentuale troppo alta della ricchezza prodotta viene estorta da questo sistema del debito e della speculazione finanziaria, dall’economia reale. Bisogna innanzitutto restituire ai lavoratori, alle famiglie, alle imprese e alle nazioni ciò che loro appartiene».