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Per combattere l’obesità, chiamiamo la gola per quello che è: una malattia dell’anima

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Zac Alstin - pubblicato il 10/07/15

Qualcosa nel nostro rapporto con il cibo è assai sbagliato

Quando consideriamo l’epidemia di obesità in Occidente, non siamo incoraggiati a guardare il problema come un fallimento della forza di volontà individuale, ma come il risultato di cause complesse che spaziano dai comportamenti infantili alla predisposizione genetica, con l’addendum generico dello “stile di vita”.

La considerazione biologica di base per cui il grasso è l’accumulo di energia in surplus indica un legame fondamentale tra l’obesità e il fatto di consumare più cibo di quanto sia necessario, ma la questione è spesso distorta da una serie di incertezze: non è vero che certe persone prendono peso più facilmente di altre? Alcuni di noi non sono determinati a livello genetico a immagazzinare energia per via delle condizioni di antenati che morivano di fame? Non è vero che certi cibi distorcono il nostro appetito, e che le dinamiche ormonali complicano la nostra ricerca di sazietà?

Può essere vero tutto questo e molto di più: il campo di battaglia tra appetito e controllo del peso è complesso e contorto. Non è quindi forse la battaglia giusta da combattere?

Se le questioni sulla forza di volontà sono considerate passi falsi in rapporto all’obesità, immaginate quando potrebbe essere ben accolta la dichiarazione di golosità. La teoria della gola potrebbe però offrire una risposta all’obesità che aggira l’altrimenti interminabile lotta tra il nostro appetito di cibo e il nostro desiderio di salute e integrità fisica.

Bisogno disperato di soddisfazione

Il problema della maggior parte degli approcci alla dieta e alla perdita di peso è che in vari modi cercano di dirci quando possiamo mangiare il dolce. Le diete sono moltissime e decisamente varie, ma ciò che hanno in comune è il tentativo di soddisfare l’appetito oltre che di diminuire il consumo globale. Alcune diete cercano di controllare la quantità complessiva di cibo consumato, senza restrizione a livello di cibi permessi, attraverso varie forme di conteggio delle calorie. Altre limitano i tipi di cibo, non toccando le quantità, ad esempio diete altamente proteiche che ritengono i carboidrati il vero nemico della perdita di peso e si basano sul potere saziante di pasti altamente proteici per diminuire l’appetito.

Queste diete possono funzionare per alcuni, forse soprattutto quando le loro regole ristrette o i loro regimi inusuali aiutano a spezzare abitudini alimentari consolidate e a indebolire l’appetito semplicemente eliminando la “familiarità”. La novità di eliminare gli alimenti a base di carboidrati può sfidare il rapporto con il cibo, ma il nostro appetito è adattabile, e presto troveremo nuovi modi di soddisfarlo con cibi diversi.

Per alcuni di noi, la guerra tra il peso e l’appetito deve essere una proposizione “tutto o niente”. Se dobbiamo ingaggiare una guerra, dev’essere una guerra totale, e l’appetito non dev’essere semplicemente respinto, ma sconfitto. Dobbiamo non solo cambiare le nostre abitudini alimentari, ma riconoscere la discordia psicologica e spirituale fondamentale alla base di un rapporto disfunzionale con il cibo.

Sono stato più o meno sovrappeso durante tutta l’età adolescenziale e adulta, e due considerazioni amare ma liberatorie hanno fatto infine la differenza. La prima è che sono un edonista, a livello materiale se non formale. Il cibo è stato un’immensa fonte di piacere, divertimento e soddisfazione sensoriale non adulterata per la maggior parte della mia vita, e qualsiasi desiderio compensativo di rimanere in forma e sano attraverso combinazioni di dieta ed esercizio è stato minato dal fascino che esercita il mangiare su di me.

Una disfunzione spirituale

Il fatto che il piacere di mangiare funga da via di fuga sorprendentemente ricca e allettante di fronte alla monotonia e alla banalità della vita quotidiana mi ha provato che l’autoindulgenza era una disfunzione non semplicemente fisica, ma spirituale. Per qualcuno che passa quasi ogni momento a pensare a mille cose, il godimento senza complicazioni di qualche snack appetitoso o di qualche delizioso piatto casalingo offre una sorta di sollievo pacifico dalla vita. O, come ha scritto il monaco ascetico del IV secolo Giovanni Cassiano, la mente, quando è soffocata dal peso del cibo, non riesce a mantenere la guida e il governo dei pensieri… ma l’eccesso di qualsiasi tipo di cibo la rende debole e incerta, e la priva di tutto il suo potere di contemplazione pura e chiara.

Riconoscere la via di fuga rappresentata dal cibo ha spazzato via l’illusione per cui mi stavo semplicemente godendo il mio pasto. Stavo invece cogliendo l’opportunità di gratificare il mio appetito, e nel fare questo ho raggiunto una fuga temporanea ma totale da qualsiasi problema, minaccia o stanchezza che la vita mi potesse presentare.

Forse è per questo che la gente spesso rifugge dalla realtà di essere sovrappeso? Ben poche persone hanno la temerarietà di dire “Sono sovrappeso perché mangio più di quello di cui ho bisogno, mangio più di quanto mi serve perché il piacere di farlo mi distrae da altre preoccupazioni, o più in generale dalla monotonia della vita”. Una dichiarazione del genere implicherebbe un grado di autocoscienza e onestà che non si adatta all’edonismo di evasione. È difficile godersi un piacere di evasione mentre si pensa alla realtà sconfortante o spiacevole dalla quale si sta sfuggendo.

Essere sovrappeso è per molta gente come una malattia misteriosa o una situazione sfortunata che le è semplicemente accaduta mentre era occupata a fare altro. In un certo senso è vero: il vostro corpo ha acquistato peso mentre la vostra mente era persa nei piaceri del mangiare.

Negare l’appetito

Se questa dichiarazione di edonismo di fuga sembra severa, Cassiano parla del “vizio della sazietà”, citando le Scritture nota che “la causa del rovesciamento e della licenziosità di Sodoma non è stata l’ubriachezza attraverso il vino, ma la quantità di pane” e si chiede:

“Cosa penseremo di coloro che con un corpo vigoroso osano prendere un po’ di carne e vino senza freno, prendendo non solo ciò che richiede la loro fragilità corporea, ma quello che suggerisce il grande desiderio della mente?”

E Cassiano non è solo tra le autorità spirituali a descrivere un approccio intransigente di questo tipo nei confronti dell’appetito per il cibo e del desiderio di sazietà. Confucio fa le stesse considerazioni partendo da una prospettiva meno ascetica:

“Chi desidera essere un uomo di completa virtù non cerca nel cibo di gratificare il suo appetito, né cerca nella sua dimora gli strumenti di benessere; è serio in ciò che fa e attento a parlare; frequenta uomini di principio dai quali possa essere corretto. Di una persona del genere si può dire davvero che ami imparare”.

In senso più ampio, la pratica religiosa del digiuno è compresa tipicamente non come un semplice atto sacrificale o rituale, ma come uno sforzo ascetico per diminuire il potere dei nostri appetiti. In termini semplici, rifiutarsi di gratificare l’appetito stabilisce un precedente potente di come scegliamo di relazionarci ai nostri desideri: acriticamente, in modo autoindulgente o con un obiettivo attraverso principi più elevati.

Il godimento è una scelta

Il riconoscimento dell’evasione non è sufficiente a cambiare le abitudini di una vita, anche se fornisce il motivo per un cambiamento del genere. Ciò che fa la differenza in termini di abitudini quotidiane è capire che il “godimento di mangiare” non è una proprietà universale, fissata e irrefutabile. Chi di noi mangia troppo tende a immaginare che certe persone siano solo più brave a resistere ai propri appetiti. Non pensiamo mai che certe persone semplicemente non si divertano a mangiare quanto noi. Il godimento del nostro cibo preferito non è passivo, ma attivo; godiamo attivamente il cibo, mettendo sforzi e cura nel nostro apprezzamento del gusto e della composizione. Sviluppiamo rituali, bramiamo il cibo e nutriamo un desiderio nei suoi confronti,valorizzando l’anticipazione e i particolari delle circostanze tanto quanto il sapore del cibo stesso.

Alcuni, però – e noi stessi quando siamo ammalati o addolorati -, semplicemente non si godono il cibo a questo livello, e se noi non ce lo godessimo tanto non troveremmo tanto piacere nella dinamica di costruire e poi di saziare il nostro appetito.

Ormai ogni volta che mi accingo a mangiare qualcosa mi chiedo se lo mangerei se non mi divertissi a mangiare. Se lo sforzo di mangiare superasse il piacere, perché mangerei più di quanto è legittimamente richiesto? Queste domande ci possono far entrare nella mente di una persona che non ama mangiare.

La dinamica del vizio

Senza godimento, il cibo perde il suo valore di fuga. Cosa c’è di così sbagliato nella nostra vita da farci contare così tanto sui piaceri del palato? Non è affatto una questione di biasimo o vergogna, quanto di consapevolezza di un problema fisico e spirituale pervasivo.

La gola, insomma, comporta sia una fuga da una realtà monotona o spiacevole che un godimento del cibo. I due aspetti sono collegati, e non possiamo aspettarci di assoggettare i nostri appetiti senza affrontare entrambi gli aspetti del problema: l’avversione dalla quale fuggiamo e il falso comfort verso il quale siamo attirati.

Come qualsiasi altro vizio, la gola promette di liberarci dai problemi, anche quelli di lieve entità come la noia e la tendenza a procrastinare, ma la caratteristica dei vizi è tale che non possono offrire vera libertà o vero sollievo – spostano solo il problema, magnificandolo e abbellendolo nel processo. Quanti di noi sono afflitti da abitudini legate alla gola possono pensare che la vita senza mangiare con indulgenza sarà noiosa e infelice, ma mangiare di più non cambierà la sostanza della nostra vita, e rifugiarsi nei piaceri del cibo non fa altro che distrarci dalla vera sfida della vita stessa. Se la vita senza autoindulgenza sembra deludente o pesante, allora la nostra tendenza a fuggire grazie al cibo ostacola un vero cambiamento significativo.

A livello sociale, il nostro fascino per il cibo, inclusa la crescente commercializzazione del “gourmet” attraverso iterazioni infinite di chef famosi e reality show, avvicina il livello dell’indulgenza alla gola culturalmente sanzionata ed economicamente incoraggiata. Come un macrocosmo della lotta dell’individuo con appetiti di fuga, la gola a livello sociale implica una cultura priva di obiettivi più elevati e di beni più potenti. Suggerisce un malessere spirituale più ampio in cui si dedicano tanto tempo, energia e attenzione all’apprezzamento del cibo, con corrispondenti malattie fisiche come l’epidemia di obesità, il diabete e i disturbi cardiaci.

Biasimare gli interessi corporativi è sicuramente un passo necessario per correggere lo scivolamento della società verso l’obesità, ma a livello individuale nulla potrebbe essere più significativo di un pieno apprezzamento di vizi e virtù nella lotta per trovare significato e felicità nella nostra vita.

Zac Alstin è editore associato di MercatorNet, dov’è apparso questo articolo. Il suo blog è zacalstin.com

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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