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“C’e’ un uomo inviato da Dio, di nome Giovanni”

John XXIII and the Beginning of the Fall of the Iron Curtain AP Photo – it

Ullstein bild - AP Photo

Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 08/07/15

Con papa Roncalli l’inizio di una nuova storia

Per ricordarlo, non c’è bisogno di aspettare una data anniversaria, una ricorrenza, e neppure, adesso che è santo, la sua memoria liturgica. E’ la storia, è la quotidianità stessadella Chiesa, a ricordarci che, tutto ciò che oggi nel cattolicesimo è forza viva e vitale, fioritura di carismi e di nuove esperienze, sul piano della spiritualità, della testimonianza, della partecipazione, della presenza nella società, e tutto ciò che ora sta sprigionando il pontificato di Francesco in fatto di riforme pastorali e istituzionali, di rilancio della missione evangelizzatrice, di guida per l’umanità, ebbene, tutto questo ha avuto origine dal grande cuore e dalla grande fede di Angelo Giuseppe Roncalli.

Era stato appena eletto, e l’allora patriarca ortodosso di Costantinopoli, Atenagora, applicò al nuovo Papa le parole del quarto Vangelo: “C’è un uomo inviato da Dio, di nome Giovanni”.

Lo chiamavano, e continuano a chiamarlo, il “Papa buono”. Ma non nel senso di ingenuità oppure di furbizia, come i suoi avversari tentarono di far credere. Era invece la bontà di chi apriva gliocchi al nuovo giorno e, ogni volta, si affidava con fiducia, con abbandono, a quella Provvidenza che lo faceva sentire piccolo piccolo e, insieme, così sicuro. Era la bontà che aveva imparato in famiglia, una famiglia contadina, e che poi aveva sempre cercato di vivere per migliorare se stesso alla luce della fede. Insomma, la bontà che lui definiva “sapienza del cuore”, e che lo portava sempre a perseguire e a far emergere – tra le persone, tra i popoli – “ciò che unisce”.

Quando lasciò la Bulgaria, dove aveva rappresentato la Santa Sede, si accomiatò così: “Dovunque io sarò, anche in capo al mondo, se un bulgaro che si fosse perduto dovesse passare dinanzi alla mia casa, troverà la candela accesa sulla mia finestra. Bussi alla mia porta e gli sarà aperto, non importa se sia cattolico oppure ortodosso”. Questa bontà, questa paternità, trasparirono subito dal suo linguaggio anche da Papa. Giovanni XXIII andò a ReginaCoeli a visitare i carcerati. “Io metto i miei occhi nei vostri occhi, il mio cuore vicino al vostro cuore”.

Era un linguaggio nuovo, non solo per le parole ma per l’atteggiamento che esprimeva. Per secoli, la Chiesa e i Papi avevano usato un proprio linguaggio. E ora, invece, c’era un Papa che, adoperando le stesse parole della gente, voleva mostrare comela Chiesa intendesse abbassare i ponti levatoi e riprendere il dialogo con il mondo. L’11 ottobre del 1962, si aprì il Concilio Vaticano II, più di 2.500 vescovi convenuti a Roma per discutere del futuro del cattolicesimo. Ma, il vero segnale della svolta, fu il bellissimo discorso alla luna che Roncalli improvvisando rivolse quella sera alla moltitudine in piazza San Pietro, quando chiese ai papà di portare la sua carezza ai loro bambini.

Era un profeta, nel senso più pieno. Un profeta che, come nei racconti della Bibbia, non solo annunciava il futuro ma interpretava la presenza di Dio nella storia, i “segni dei tempi”. Infatti, papa Roncalli seppe cogliere in profondità la condizione concreta dell’uomo moderno, proprio perché aveva saputo leggere questa storia alla luce del Vangelo, della Rivelazione, ma anche dell’esperienza umana. Era uno straordinario esempio della più autentica tradizione tridentina: legato indiscutibilmente alla Tradizione, e, nello stesso tempo, sensibile alle esigenze rinnovatrici; pienamente fedele al patrimonio dottrinale e, appunto per questo, garante dell’ortodossia nell’intraprendere una complessa opera di riforma.

E così, a 77 anni, Giovanni XXIII decise di imbarcarsi in una impresa difficilissima, quella di convocare un Concilio ecumenico. Anche se di un Concilio – ma lo si sarebbe capito più tardi – c’era davvero bisogno. La Chiesa si portava ancora dietro il pesante carico delle chiusure controriformistiche del dopo-Trento (specialmente per il prevalere di uno spirito giuridico-clericale) e dell’eccesso di uniformità (nel governo, nella liturgia, nella pastorale) che aveva caratterizzato il cattolicesimo dagli inizi del secolo. E dunque, per la Chiesa, il Vaticano II rappresentò un’occasione provvidenziale per guardare dentro se stessa con più umiltà e semplicità, per tornare alla purezza delle sue fonti, autoriformarsi, e, in questo modo, per riprendere a camminare accanto agli uomini.

Fu perciò un Concilio assai diverso da quelli precedenti. Non lanciò anatemi, né sanzionò scismi ed eresie, e neppure proclamò nuovi dogmi. Ebbe invece una impostazione pastorale, ecumenica, positiva: e, comunque, senza per questo voler creare una frattura con il passato. “Non è il Vangelo che cambia – diceva sempre Roncalli – ma siamo noi che cambiamo e quindi siamo in grado di comprendere il Vangelo meglio e più a fondo di prima”.

Giovanni XXIII poté solo inaugurare il Concilio e avviarlo. Ma l’opera da lui cominciata, e continuata dai successori, è stata innegabilmente l’inizio di una nuova esaltante stagione per il cattolicesimo: una stagione accompagnata anche da momenti drammatici, da gravi difficoltà, e anche da qualche passo falso, da momentanei ritorni indietro; ma che ha aperto sempre nuove vie alla missione evangelizzatrice, e nuove prospettive per l’impegno della Chiesa sui fronti della giustizia e della pace.

Basterà pensare a quanto sia profondo e continuo l’intrecciarsi del pontificato roncalliano con quello di Bergoglio. Un intrecciarsi di parole, di gesti, di iniziative, e, soprattutto, di aperture al “nuovo” che sembra emergere, pur fra tanti ostacoli e resistenze, dal vissuto dell’umanità contemporanea. Roncalli che nel suo primo discorso da Papa disse di voler “scoprire a tutti la tenerezza del suo cuore”, non ricorda il linguaggio di Bergoglio? Roncalli che all’apertura del Concilio invitò la Chiesa a usare più la “medicina dellamisericordia” che non la “severità”, non richiama alla mente uno dei temi centrali del magistero di Francesco, e la convocazione di un Giubileo dedicato proprio alla misericordia divina? L’intestazione di quell’ultimo grande documento (quasi un testamento) di Giovanni XXIII, l’enciclica “Pacem in terris”,indirizzata per la prima volta non solo ai cattolici ma a tuttigli uomini di buona volontà, non ha forse avuto un “seguito” nell’enciclica di Francesco sulla salvaguardia del creato?

C’è qui, in controluce, il cammino che, sotto l’impulso profetico di Giovanni XXIII, la Chiesa cattolica ha percorso negli ultimi cinquant’anni. Grazie al Concilio, la Chiesa era tornata ad essere “realmente e intimamente solidale” con il genere umano. Così, oggi, la Chiesa guidata da Francesco può alzare la voce e chiedere all’umanità di farsi un esame di coscienza, di cambiare rotta, e di pensare a un progetto comune: perché, o la costruzione di un mondo nuovo, diverso, un mondo giusto e pacifico, sarà opera di tutti, o tutti ci avvicineremo ogni giorno di più alla catastrofe.

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