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L’aborto è solo un “problema di coscienza”?

Bebê nas mãos de um adulto – it

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Padre João Paulo Pimentel - pubblicato il 06/07/15

Decidere della vita di un innocente va oltre una questione privata, ha un'enorme dimensione sociale

Chi afferma che l'aborto è solo una questione di coscienza è in genere favorevole alla sua legalizzazione. Può perfino accettare serenamente che l'aborto sia una cosa da evitare, ma pensa che non sarà obbligatorio porsi contro questo atto. Ci saranno eccezioni che sarà la donna, e solo lei, a dover identificare.

Le donne che in determinate situazioni decidono di abortire, dicono, lo fanno “in coscienza”. Non lo fanno con animo leggero, ma ponderano tutti i fattori e giudicano che la cosa più corretta, o il male minore, sia effettuare l'aborto. La loro coscienza approverebbe questo atteggiamento. Nessun altro ha nulla da dire sulla sua bontà o cattiveria. Lo Stato, o chiunque altro, non deve avere il diritto di intromettersi nella coscienza della donna, contrariando una decisione intima. Non sarebbe quindi legittimo un intervento pubblico proibitivo.

Quali obiezioni si possono sollevare a questo modo di inquadrare il problema?

Posso concordare sul fatto che, come qualsiasi problema di indole morale, l'aborto sia in partenza una questione di coscienza. Lo sono anche il rispetto delle leggi di circolazione ferroviaria, le leggi fiscali, la pirateria di software, la violenza domestica, il suicidio, la dipendenza dalle droghe, ecc. La prova è che in queste come in molte altre questioni si espongono motivi e si fanno campagne perché le persone aderiscano liberamente a quello che si ritiene corretto e vantaggioso per i cittadini e la società.

In questo contesto, sembra legittimo suggerire due domande:

1) Quali criteri si devono seguire per inquadrare un atto che ha un chiaro significato etico tra quelli che non devono essere tutelati o giudicati da “terzi” (chiamiamoli “atti di mera coscienza” o di “morale privata”)?

2) Nel caso in cui i criteri di inquadramento siano poco chiari, chi decide su questo eventuale inquadramento di un atto nella morale privata (o nella morale pubblica)?

Certamente, gli atti che hanno un particolare rilievo sociale, che coinvolgono diritti di terzi o influiscono sulla vita sociale devono essere regolati socialmente. Ciò significa che la società (o lo Stato) deve intervenire per evitare abusi sulle persone che si trovano in una particolare situazione di vulnerabilità, che sono le più bisognose della tutela giuridica. Lo Stato deve quindi agire nei casi di grave violenza domestica, o degli eccessi di velocità sulle strade, in caso di incitazioni al razzismo o alla xenofobia o nei licenziamenti senza giusta causa. Quando lo Stato interviene, non significa che chi infrange non invochi la sua coscienza, ad esempio per assicurare che nel suo caso e a suo avviso circolare a 180 km/h non rappresentava un pericolo né per se stesso né per gli altri. Ed è perfino probabile che la multa non cambi la coscienza del conducente temerario. Continuerà a pensare di essere stato punito ingiustamente. Lo Stato dovrebbe ritirare la multa in nome del giudizio di coscienza di chi ha infranto la regola? O dovrebbe perfino ritirare la legge, confidando nel prudente giustizio di ogni automobilista? E nel caso in cui optasse per la soppressione della legge, se ci fosse un incidente per eccesso di velocità con la morte di persone innocenti, a chi si richiederebbe di riparare il danno provocato: all'automobilista morto? Al fabbricante delle macchine? Al costruttore della strada? A nessuno, in memoria della coscienza di chi ha infranto la regola?

Per quale motivo ci sono leggi spesso violate che non vengono soppresse? Lo Stato si è dimostrato sempre più incline a intervenire in materie come l'evasione fiscale o gli eccessi alla guida. Perché in materie come l'aborto o il consumo di droghe si vuole seguire il processo inverso? Chi decide che alcuni atti non debbano essere fiscalizzati e altri sì? E su quali basi prende questa decisione?

Nel caso dell'aborto, ammettendo la coscienza come unico giudice dell'atto, si potrebbe elencare una serie di conseguenze di trascendenza sociale:

1) muore un innocente, che non è chi emette il giudizio di coscienza; 

2) qualcuno che uccide innocenti agisce sotto copertura legale; 

3) nel caso in cui si voglia opporre all'aborto, la donna resta senza una protezione legale che controbilanci le pressioni familiari e sociali; 

4) la donna che soffre per il trauma post-aborto si troverà in una situazione in cui qualcuno dovrà curarla: l'équipe che ha effettuato l'aborto si occuperà della situazione?; 

5) in caso di legalizzazione, lo Stato recluterà persone (pagate dai contribuenti) per realizzare l'aborto su richiesta; 

6) si corre il rischio che ci siano professionisti sanitari e studenti di medicina costretti a cooperare, più o meno “diplomaticamente”, ad atti che violano la loro coscienza; 

7) la cosa più difficile da dimostrare in poche righe è la diminuzione della sensibilità nei confronti della vita umana. Facciamo solo un esempio. In Portogallo, è legalizzato l'aborto eugenetico in determinate condizioni. Quando lo Stato permette di uccidere degli embrioni perché presentano un handicap, come considererà la società le persone con qualche “handicap”? A rigore, una società umanista si dovrebbe prodigare in misure che dovrebbero proteggere coloro che sono portatori di qualche difficoltà aggiuntiva. Quando se ne permette la morte nell'utero, lo Stato dà un segno per cui questi cittadini interessano meno degli altri. Non è quindi strano che varie associazioni che difendono persone portatrici di handicap protestino per la crescente mancanza di sensibilità nei loro confronti. Di fronte a questa e ad altre questioni, perché l'aborto dovrebbe essere solo una questione di “mera coscienza” della donna?

Un'ulteriore questione. La società ha aumentato la propria sensibilità per interventi legali che in altri tempi erano considerati estranei al suo campo di azione. Ad esempio, a livello sociale c'è sempre più unanimità sul fatto che l'ingerenza umanitaria in alcuni Stati è legittima e perfino moralmente obbligatoria in determinate condizioni. La sovranità di uno Stato – la sua coscienza collettiva – non è necessariamente un valore intoccabile. Anche a livello familiare, si percepisce sempre più che ci sono casi di violenza domestica, che avvengono tra le quattro mura di casa, in cui la legge deve intervenire. L'ambito familiare non è assolutamente inviolabile.

La società ha quindi preso coscienza del fatto che di fronte a determinati mali bisogna intervenire legalmente per salvaguardare diritti umani elementari. Se questa via della giustizia è considerata un progresso nella vita dei popoli perché mira a proteggere esseri indifesi, perché nel caso dell'aborto si pretende che la legge abbandoni un ambito in cui tutto culmina con la morte di un innocente e una minore sensibilità di fronte al carattere unico della vita umana? Non sarebbe il momento di pensare seriamente allo statuto giuridico dell'embrione?

Una “curiosità”: nell'enciclica sul Vangelo della vita, Giovanni Paolo II richiamava l'attenzione sul fatto che con questa argomentazione si pretende un'autonomia totale della coscienza per abortire esigendo allo stesso tempo dai legislatori e dai politici l'abdicazione dalla loro coscienza, che deve sottomettersi senza riserve a ciò che approva la maggioranza. Contraddizioni sulla coscienza…

Riassumendo, pretendere che l'aborto debba essere ridotto a una questione di morale privata non corrisponde al modo in cui ci si rapporta a questioni anche di minore rilevanza sociale. L'espressione suona bene, perché fa senza dubbio appello alla responsabilità, ma è incompleta: l'aborto è una questione di coscienza personale, ma ha un'enorme dimensione sociale. C'è molta gente che preferisce in una società in cui si proteggono i più deboli.

[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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