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Processo all’umanità

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 30/06/15

Il diavolo in Paradiso tra diritto, teologia e letteratura

di Giovanni Cerro

Il venerdì santo del 1354, nel tribunale celeste del Paradiso, Cristo giudice ha fissato un’udienza richiesta dal diavolo in persona che, in qualità di procuratore della malvagità infernale, chiede che gli venga restituita la potestà sul genere umano. La sua rivendicazione sembra ben fondata: nonostante sia stata redenta dal sacrificio del figlio di Dio, l’umanità continua infatti a peccare. Il processo però rischia di concludersi prima ancora di iniziare perché l’imputato — l’umanità — non si è presentato, a dispetto della convocazione da parte dell’arcangelo Gabriele. Appellandosi al criterio dell’aequitas, ovvero alla prerogativa del giudice di valutare il caso evitando l’applicazione rigorosa della legge, Cristo rinvia tutto al giorno seguente. Intanto in Paradiso la Vergine Maria, per scongiurare il reato di contumacia, si dichiara avvocata dell’umanità. Il sabato mattina si avvia così la fase preliminare del dibattimento, durante la quale Satana denuncia l’inammissibilità del difensore: non solo è una donna, ma è anche la madre del giudice. Pronta è la replica della Madonna che, richiamandosi a un’eccezione prevista dal diritto civile e da quello canonico, ricorda che le donne possono difendere in tribunale alcune categorie particolari, come le vedove, i parenti e i miserabili.
Martin Schongauer«Tentazioni di sant’Antonio» (XV secolo, particolare)
Del resto, osserva Maria, «dove sono persone più miserabili, se non nel mondo?». È titolata a intervenire, inoltre, poiché lei stessa appartiene al genere umano. Si apre quindi il dibattimento. Da un lato, il diavolo si richiama alla Genesi per sostenere che Adamo ed Eva hanno disobbedito volontariamente alla parola di Dio e perciò le loro anime e quelle dei loro discendenti devono essere consegnate all’inferno. Dall’altro, la Madonna ricorda che è stato Satana stesso a istigare l’uomo al peccato e che la sua pretesa di una “restituzione” dell’umanità non ha fondamento giuridico. Egli non è “possessore”, ma solo “detentore” delle anime peccatrici e per di più lo è in mala fede, avendole attirate a sé con l’inganno. La confutazione in punta di diritto lascia spazio a una digressione di carattere teatrale, in cui la Vergine assume i tratti della mater dolorosa. La richiesta finale del diavolo è che, a causa del peccato originale, l’umanità sia condannata per lesa maestà. Entrambe le parti sono convocate per ascoltare la sentenza: il giorno di Pasqua del 1311 — con un’evidente incongruenza cronologica rispetto alla data di inizio del processo — Cristo assolve definitivamente il genere umano e condanna di nuovo il diavolo alla dannazione eterna. Il soggiorno di Satana in Paradiso è stato dunque infruttuoso e di breve durata.

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Questa vicenda, che a un lettore moderno può apparire paradossale, è tramandata nel Processo tra il diavolo e la Vergine davanti a Cristo giudice, un testo composto nella prima metà del xiv secolo. Benché compaia nel corpus dei trattati del giurista Bartolo da Sassoferrato, la sua paternità è controversa. Oggetto di una straordinaria diffusione fino al Seicento, l’opera è oggi pressoché sconosciuta, anche per effetto del giudizio negativo espresso dalla storiografia giuridica sia tedesca sia italiana tra Otto e Novecento. L’intento del recente volume di Beatrice Pasciuta, che insegna Storia del diritto medievale e moderno all’università di Palermo, "Il diavolo in Paradiso. Diritto, teologia e letteratura nel Processus Satanae (sec. xiv)" (Roma, Viella, 2015, pagine 269, euro 26) è riproporre la lettura di un testo che si situa al crocevia tra diversi ambiti disciplinari — diritto, filosofia, letteratura, teatro — offrendo un’accurata ricostruzione del contesto culturale dell’epoca, che proprio nella poliedricità trova la sua cifra caratteristica. L’opera non può essere considerata soltanto un prodotto della cultura popolare medievale, perché è radicata anche nell’insegnamento universitario. Il testo è trascritto, infatti, in codici sia di argomento teologico sia giuridico: in quest’ultimo caso è corredato da allegazioni, cioè citazioni delle fonti normative e glosse. Il ricorso alla simulazione e alla forma dialogica, da un lato, permetteva di ripercorrere in una sequenza ordinata i momenti principali del rito processuale di tipo accusatorio; dall’altro, si adattava alle esigenze edificanti delle predicazioni di piazza e probabilmente anche delle sacre rappresentazioni. In appendice, l’autrice riporta le due varianti fondamentali del Processus Satanae che circolano dalla seconda metà del Quattrocento, una attribuita a Bartolo e ampiamente diffusa, l’altra adespota e con una ben più esigua circolazione. In entrambi i casi, il processo si conclude con i cori angelici che intonano il Salve Regina, preghiera mariana per antonomasia. Mulier damnavit et mulier salvavit, recita il prologo della versione bartoliana: se è vero che una donna, Eva, è all’origine della dannazione dell’umanità, un’altra donna, Maria, è artefice di una nuova salvezza, grazie ai raffinati strumenti della scienza giuridica.

QUI L’ORIGINALE

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