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Come vivere la povertà in Vaticano

Pope Francis and Javert at the Barricades Gabriel Bouys – it

Gabriel Bouys AFP

Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 11/06/15

Pauperismo, Populismo, demagogia? No, quella di Francesco è una scelta preferenziale per i poveri

Gli danno del “comunista”, a Francesco. E, fin qui, niente di nuovo nella storia del papato moderno. Avevano dato del “comunista” a Giovanni XXIII, quando aveva proclamato la distinzione tra l”errore” e l’”errante”, tra i movimenti politici e ideologici e quanti vi aderiscono. Avevano dato del “comunista” a Paolo VI, che già a Milano era diventato l’”arcivescovo rosso” per il suo impegno in difesa degli operai. Ed erano riusciti a dare del “comunista” anche al Papa che aveva avuto una parte decisiva nella caduta del Muro, a Giovanni Paolo II, perché aveva sostenuto che il tramonto di un sistema (il marxismo) non significava necessariamente la vittoria dell’altro (il capitalismo).

E adesso, c’era da aspettarselo, accusano di comunismo Francesco,il Papa venuto dal Sud del mondo e che ha dato voce alla voglia di riscatto dei poveri, alle loro richieste di giustizia, e perfino alla loro rabbia. Il Papa che ha detto no alla “cultura delloscarto”, all’”economia dell’esclusione e dell’iniquità”. Il Papa che ha usato parole forti, mai sentite prima, per denunciare gli effetti perversi dell’impero del denaro, di un capitalismo che è arrivato addirittura a negare il primato dell’essere umano, e di una globalizzazione senza punti di riferimento etici, lasciata a se stessa, senza controlli, senza freni.

Dunque, come si diceva, niente di nuovo. Lo ha notato Francesco, ma avrebbero potuto farlo i suoi predecessori: “…se parlo di questo, per alcuni il Papa è comunista. Non si comprende chel’amore per i poveri è al centro del Vangelo”. E tuttavia, a rileggere questi due anni di pontificato, si intuisce che c’è dell’altro, qualcosa che dev’essere meglio compreso. Intendiamo parlare delle critiche, provenienti in genere da ambienti cattolici, e che si concentrano – più che sui discorsi e sulle prese di posizione di papa Bergoglio – sui suoi comportamenti personali, sui gesti, insomma, sul “modo” in cui lui affronta e vive il problema povertà.

Beninteso, non si tratta delle critiche, decisamente ridicole se non offensive, che vengono avanzate sull’eccessiva sobrietà delvestire (per aver Bergoglio conservato la sua croce pettorale di ferro, le scarpe nere, e i calzoni anch’essi neri sotto la tonaca bianca), sul fatto di andare a piedi all’interno del Vaticano, o sull’impiego di vetture più piccole al posto delle sontuose macchine di prima. Ci riferiamo invece alle accuse di populismo, se non addirittura di demagogia, che gli fanno, per certe scelte che ha compiuto, come quella di rimanere ad abitare nella casa-albergo di S. Marta; e, soprattutto, per le iniziative adottate nei riguardi dei clochard che stazionano sotto il colonnato del Bernini: come l’invito a colazione per il suo compleanno, l’installazione di docce e barberia, e l’avergli riservato la prima fila al concerto in Vaticano…

Sì, certo, qualcuno che ha ancora un’idea monarchica del papato, non poteva che storcere il naso. Qualcuno che teme unabanalizzazione della figura pontificia, non poteva che avere una reazione istintivamente negativa. Peggio che mai per chi è convinto che il Papa compia questi gesti per “piacere”, per allargare il consenso già enorme di cui gode.

Tutti costoro, però, dimenticano il percorso umano e spirituale diBergoglio. Dimenticano che, decidendo di farsi prete, egli aveva immediatamente capito che il suo sacerdozio, per essere in totale sintonia con lo spirito del Vangelo, avrebbe dovuto mettersi al servizio dei più bisognosi, e quindi realizzarsi a partire da una piena condivisione della povertà. E ancora, si dimentica la sua provenienza da un cattolicesimo che ha compiuto quella straordinaria scelta evangelica che è stata l’opzionepreferenziale per i poveri. Infine, si dimentica che Bergoglio, già da vescovo, visse da povero tra i poveri, con i poveri. E che la decisione di chiamarsi Francesco, diventando Papa, voleva dire associare solennemente, non solo il suo pontificato ma la Chiesa intera, ai poveri e alla povertà.

E comunque, le origini di Bergoglio, la sua esperienza, le sue scelte, tutto questo spiega solo in parte i suoi comportamenti da Papa. Per comprenderlo, fino in fondo, bisogna risalire acinquant’anni fa, al Concilio Vaticano II. Già nella prima sessione, il tema della povertà era diventato uno degli argomenti centrali: sia come rinnovata attenzione ai poveri, al grande scandalo del secolo XX rappresentato dalla fame e dalla miseria nel mondo; sia come impegno della Chiesa a essere essa stessa povera, e quindi ad attuare conseguentemente una serie di riforme pastorali e istituzionali. Ad esempio – come aveva suggerito il cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, in un famoso intervento – l’avvio di un nuovo stile o “etichetta” per ivescovi, il ritorno delle Famiglie religiose alla “santa povertà” non solo individuale ma anche comunitaria, e, in campo economico, l’abbandono di istituzioni ormai superate.

Quel dibattito, così aperto e coraggioso, aveva portato a notevoli risultati. Paolo VI, dopo aver donato la sua tiara ai poveri, aveva creato due nuovi organismi vaticani perché si occupassero di tali problematiche, “Iustitia et Pax” e “Cor Unum”. Finito il Concilio, si era registrata una continua evoluzione del magistero sociale della Chiesa. C’era stata l’enciclica “Populorum progressio”, sempre di papa Montini. Poi, era arrivato GiovanniPaolo II, il quale aveva riletto i fenomeni socio-economici allaluce del Vangelo e della storia. La “questione sociale”, tramontata la nozione di “classe”, andava incentrata sulla dignità dell’uomo (enciclica “Laborem exercens”). La dimensione morale dello sviluppo doveva portare a rivedere, in termini di reciprocità e solidarietà, tutti i meccanismi che regolano i sistemi di produzione e di scambio (“Sollicitudo rei socialis”) e la stessa economia di mercato (“Centesimus annus”).

Non si poteva dire perciò che la Chiesa cattolica non avesseparlato chiaro e forte. E che non avesse operato anche concretamente sul fronte del rispetto dei diritti degli uomini e dei popoli (grazie anche ai viaggi di papa Wojtyla), e nei campi della giustizia e della solidarietà (con il Nord ora anch’esso attanagliato dallo spettro della povertà, e il Sud più affamato ed esasperato di prima, e ancora più pericoloso). Dunque, non si poteva certo dire che la Chiesa non avesse fatto la sua parte nell’offensiva mondiale contro la povertà e la fame.

Eppure, malgrado ciò, la Chiesa continuava a non essere vista econsiderata realmente libera dalle questioni mondane, dagli interessi politico-economici. E questo perché? Perché i grandi pronunciamenti sociali e i grandi interventi caritativi venivano poi contraddetti, di fatto, dagli scandali finanziari, dagli intrighi curiali, dalle poco edificanti vicende dello IOR. In sostanza, c’era in molti la sensazione che la Chiesa incontrasse ancora parecchie difficoltà, non solo ad affrontare il problemadella povertà, ma anzitutto a vivere la povertà, a testimoniarla nella sua missione.

Ed è a questo punto che viene eletto il primo Papa latino-americano. Il quale capisce subito che, per trasformare la Chiesa in “una Chiesa per i poveri”, non basterà far pulizia all’interno, specialmente nei settori economici della Curia romana. Così come non basterà battersi in tutti i consessi internazionali, per chiedere di mettere fine allo stato di povertà quasi sub-umana in cui si trovano centinaia di milioni di esseri umani. Francesco capisce che, perché le parole della Chiesa – ormai usurate – tornino a essere credibili, dovrà essere egli stesso, vescovo diRoma, a darne l’esempio per primo. Dunque, a partire dalla propria “casa”. E lì, sotto il colonnato, ci sono i poveri. “Cominciamo apensare a loro”, si sarà detto. Una decisione che sembrerebbe la più naturale del mondo. E invece, a giudicare almeno dallo shock provato da non pochi cristiani, è diventata una rivoluzione.

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