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Conoscete la sindrome del buon samaritano deluso?

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Dimensione Speranza - pubblicato il 10/06/15
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Si ha la sensazione di non aiutare veramente nessuno e di non servire a nulla

di Luciano Sandrin

Il burnout (bruciarsi) è un tipo di esaurimento emotivo e professionale che tocca tutta la persona in modi e gradi diversi: fisicamente, intellettualmente, spiritualmente. Quello che primo aveva particolare valore e sul quale si investiva, perde man mano senso, viene messo in questione o del tutto abbandonato.
 

Lavorare stanca. Un nuovo tipo di stress lavorativo, che gli studiosi hanno chiamato burnout (letteralmente bruciarsi), sta richiamando sempre più l’attenzione degli studiosi. E presente, in particolare, nelle professioni di aiuto (le helping professions). E la sindrome del buon samaritano deluso. Ne sono interessati coloro che lavorano nel campo sociale, sanitario, in quello dell'istruzione e dell'educazione: giocano su un terreno psicologicamente a rischio, dove il coinvolgimento emotivo e personale è forte. Soffrono e le conseguenze si vedono.

Il professionista bruciato
Molti, dopo un po', perdono fiducia nelle loro capacità, diventano passivi, si rifugiano nella routine, la loro identità professionale entra in crisi, l'autostima è ai livelli più bassi, stanno male, finiscono per rinunciare a responsabilità, a disinteressarsi di ciò che fanno e a innalzare rigide barriere difensive. Il rapporto con coloro che hanno bisogno di aiuto – il malato, la persona disabile, il ragazzo "difficile" o psicologicamente fragile, l'anziano che si perde, l'emigrato con cui è difficile comunicare – diventa freddo e distante. Motivazioni altruistiche e grandi ideali diventano un ricordo che fa solo soffrire. Aumentano i conflitti con i colleghi e le tensioni in famiglia. Non mancano disturbi che interessano la salute.

costi di questo fuoco che si spegne sono piuttosto elevati: per il professionista la cui prestazione professionale risulta sempre più scadente; per la persona che si vuole aiutare, alla quale viene offerto un trattamento sempre meno efficace e poco umano; per la struttura in cui si lavora con prestazioni scadenti, assenze sempre più frequenti, avvicendamenti continui (turnover) o veri abbandoni; per la famiglia (o la comunità in cui si vive) che subiscono aumenti di tensione e di conflittualità. A cascarci dentro sono quelli che lavorano con più entusiasmo.

Solo che per troppo tempo rimangono esposti a situazioni nelle quali vi è un forte squilibrio tra richieste e risorse, tra ideale e realtà. Aspettative e risposte che si incontrano sempre meno. I professionisti a rischio di burnout sono quelli che devono aiutare giorno dopo giorno gente che soffre per i più svariati problemi e che si aspetta di trovare sempre disponibilità, interesse e premure; quelli che sono in rapporto con persone che continuamente domandano e che non potranno mai essere pienamente soddisfatte. Si sentono man mano sopraffatti dai problemi che non riescono a risolvere, dalle emozioni che bruciano, mentre il supporto tra col leghi è piuttosto scarso.

Percorso a tappe
II sovraccarico emozionale aumenta: troppo viene chiesto e poco dato in contraccambio. A fare sempre strade in salita la benzina si esaurisce in fretta. Ci si sente come risucchiati da sabbie mobili. Si sta troppo sul fuoco e si finisce per bruciarsi. Ma tutto ciò non accade da un giorno all'altro. Il burnout può essere visto come un cammino con vari passaggi, un film nel quale non è sempre facile riavvolgere la pellicola e tornare indietro (immagine d'altri tempi ma evocativa): dall'entusiasmo idealistico, tipico del nuovo arrivato, innamorato del suo lavoro, che non ha paura di niente, all'esperienza di sentirsi impantanato, bloccato e frustrato, perché i risultati non sono quelli sperati e i problemi "continuamente tornano". Si ha la sensazione di non aiutare veramente nessuno e di non servire a nulla. E questo il momento più delicato della crisi. Si apre una specie di bivio: da un lato verso il superamento della situazione, attraverso una riconciliazione tra aspirazioni e realtà, dall'altro verso il ritiro, la rinuncia, il disinteresse, l'apatia finale, e cioè il vero e proprio burnout.

Riprendere il timone
A questo punto il lavoro non dà più le soddisfazioni sperate, diventa pesante, un masso che come Sisifo si è costretti a spingere sulla cima del monte per vederlo immancabilmente rotolare a valle. Si ha contemporaneamente la sensazione di essere come in prigione, di soffrire ma di non poter scappare.

Non è che le soddisfazioni manchino, i motivi di gioia non ci siano, semplicemente non vengono più colti come tali. L'occhio vede nel bicchiere solo il vino che manca. Il pessimismo colora in nero la lettura della realtà. Si cercano compensazioni o fughe di vario tipo, delle nicchie per difendere la propria sopravvivenza: zattere di salvataggio che aiutino a stare a galla e che diano almeno l'illusione che non tutto è perduto. Ma sono imbarcazioni fragili che portano alla deriva. Bisogna saper riprendere il timone della barca.

[Tratto da Missione Salute, n. 6, 2008, p. 67]

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