Si può uscire ri-generati dalla crisi dell’economia globale? L’analisi del sociologo Mauro Magatti
Propone una riflessione approfondita sulla crisi dell’economia globale l’ultima fatica del sociologo Mauro Magatti – “Prepotenza, impotenza, deponenza” – in uscita con Marcianum Pressnella collana Dialogoi. L’autore, docente di Sociologia della globalizzazione e Analisi e Istituzioni di capitalismo contemporaneo all’Università Cattolica di Milano, individua la radice della crisi in quello che definisce “circuito di potenza”. Il sistema, spiega Magatti, è dominato dalla logica della “potenza” che è la logica della tecnica, cioè espressione di quel sistema tecnologico che, dall’Ottocento ad oggi, si è allargato sempre di più fino a costituire l’ambito entro cui si svolge la nostra vita personale e collettiva. Tale potenza, secondo Magatti, nell’attuale fase storica tende a debordare in “prepotenza”, censurando “l’impotenza” e assumendo tratti disumani. Per questo è necessario sviluppare un’idea di “deponenza” intesa come limite “sano”, il riconoscimento che c’è qualcos’altro oltre la nostra azione. Il volume è stato realizzato in collaborazione con il Festival biblico insieme con altri due testi: “Il narrare divino e umano” di Gianfranco Ravasi e “La Trinità – Quando il racconto di Dio diventa il racconto dell’uomo” di Piero Coda. Proponiamo di seguito alcuni brani del capitolo “La ‘prepotenza’ della potenza”.
Perchè non posso?
(…) Dentro il mondo che sto rappresentando, la legittimazione di ciò che si può fare e che non si può fare è di tipo tecnico: da un lato, i fini vengono riplasmati dai mezzi; dall’altro, i mezzi sono, come tali, legittimi. Culturalmente non riusciamo più a porre una domanda non tecnica su ciò che si può o non si può fare. È la domanda che fa l’adolescente di oggi al padre: «Perché no? Perché non posso?». Non avendo argomenti fondati nella cultura in cui vive, il genitore balbetta qualcosa e alla fine non può che lasciar correre. A quale autorità potrebbe appellarsi? A quale norma, se viviamo in un mondo in cui ciò che si può fare è di per sé legittimo e, nella legittimazione di ciò che accade, noi non riusciamo a fare riferimento a nient’altro che non sia la mera espansione tecnica (o, che alla fine è lo stesso, soggettiva)?
Una finanza senza limiti
In questo contesto capiamo che la finanziarizzazione è stata sì una patologia, ma solo nel senso che è stata l’archetipo di un modello in cui il circuito “potenza – volontà di potenza” si pensava ormai liberato da qualunque vincolo di realtà. E dunque capace di crescere all’infinito. Letteralmente, nei templi dell’economia mondiale si è pensato che la finanza avrebbe potuto crescere all’infinito. E questo perché la finanza, che altro non è che una componente del sistema tecno-economico, aveva raggiunto la capacità (tecnica) di gestire e assorbire qualunque rischio singolo o sistemico.
Per esemplificare: come è stato possibile che venissero accesi mutui a persone che non erano in condizione di ripagare le rate? Non si è trattato di una svista, ma dell’errore di un sistema che pretendeva di poter prescindere, grazie alla sofisticazione tecnica, dalla stessa realtà. Così la società finanziaria che dava il mutuo – e che avrebbe dovuto chiedersi come avrebbe fatto il suo cliente a saldare il debito – vendeva i mutui che accendeva a una seconda società la quale assicurava la prima società dal rischio che un certo numero di mutuatari non avrebbe pagato il mutuo; a sua volta la seconda società rivendeva i suoi pacchetti a una terza società che assicurava la seconda che assicurava la prima. È così via.
Con un sistema di calcolo molto sofisticato dal punto di vista tecnico, il sistema finanziario pensava di aver così raggiunto una situazione nella quale avrebbe potuto crescere all’infinito, gestendo qualsiasi rischio. In fondo, la hýbris dell’uomo contemporaneo è stata proprio questa: la presunzione di aver raggiunto il punto di una espansione senza limiti. Come paradigmaticamente esemplificato dal caso della finanziarizzazione.