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Prepotenza, impotenza, deponenza

Group business people with stock exchange board in office © Poznyakov / Shutterstock

<a href="http://www.shutterstock.com/pic.mhtml?id=174513560&amp;src=id" target="_blank" />Group business people with stock exchange board in office</a> © Poznyakov / Shutterstock

&lt;a href=&quot;http://www.shutterstock.com/pic.mhtml?id=174513560&amp;src=id&quot; target=&quot;_blank&quot; /&gt;Group business people with stock exchange board in office&lt;/a&gt; &copy; Poznyakov / Shutterstock

Aleteia - pubblicato il 04/06/15

Si può uscire ri-generati dalla crisi dell’economia globale? L’analisi del sociologo Mauro Magatti

Propone una riflessione approfondita sulla crisi dell’economia globale l’ultima fatica del sociologo Mauro Magatti – “Prepotenza, impotenza, deponenza” – in uscita con Marcianum Pressnella collana Dialogoi. L’autore, docente di Sociologia della globalizzazione e Analisi e Istituzioni di capitalismo contemporaneo all’Università Cattolica di Milano, individua la radice della crisi in quello che definisce “circuito di potenza”. Il sistema, spiega Magatti, è dominato dalla logica della “potenza” che è la logica della tecnica, cioè espressione di quel sistema tecnologico che, dall’Ottocento ad oggi, si è allargato sempre di più fino a costituire l’ambito entro cui si svolge la nostra vita personale e collettiva. Tale potenza, secondo Magatti, nell’attuale fase storica tende a debordare in “prepotenza”, censurando “l’impotenza” e assumendo tratti disumani. Per questo è necessario sviluppare un’idea di “deponenza” intesa come limite “sano”, il riconoscimento che c’è qualcos’altro oltre la nostra azione. Il volume è stato realizzato in collaborazione con il Festival biblico insieme con altri due testi: “Il narrare divino e umano” di Gianfranco Ravasi e “La Trinità – Quando il racconto di Dio diventa il racconto dell’uomo” di Piero Coda. Proponiamo di seguito alcuni brani del capitolo “La ‘prepotenza’ della potenza”.

***

Perchè non posso?

(…) Dentro il mondo che sto rappresentando, la legittimazione di ciò che si può fare e che non si può fare è di tipo tecnico: da un lato, i fini vengono riplasmati dai mezzi; dall’altro, i mezzi sono, come tali, legittimi. Culturalmente non riusciamo più a porre una domanda non tecnica su ciò che si può o non si può fare. È la domanda che fa l’adolescente di oggi al padre: «Perché no? Perché non posso?». Non avendo argomenti fondati nella cultura in cui vive, il genitore balbetta qualcosa e alla fine non può che lasciar correre. A quale autorità potrebbe appellarsi? A quale norma, se viviamo in un mondo in cui ciò che si può fare è di per sé legittimo e, nella legittimazione di ciò che accade, noi non riusciamo a fare riferimento a nient’altro che non sia la mera espansione tecnica (o, che alla fine è lo stesso, soggettiva)?

Una finanza senza limiti

In questo contesto capiamo che la finanziarizzazione è stata sì una patologia, ma solo nel senso che è stata l’archetipo di un modello in cui il circuito “potenza – volontà di potenza” si pensava ormai liberato da qualunque vincolo di realtà. E dunque capace di crescere all’infinito. Letteralmente, nei templi dell’economia mondiale si è pensato che la finanza avrebbe potuto crescere all’infinito. E questo perché la finanza, che altro non è che una componente del sistema tecno-economico, aveva raggiunto la capacità (tecnica) di gestire e assorbire qualunque rischio singolo o sistemico.
Per esemplificare: come è stato possibile che venissero accesi mutui a persone che non erano in condizione di ripagare le rate? Non si è trattato di una svista, ma dell’errore di un sistema che pretendeva di poter prescindere, grazie alla sofisticazione tecnica, dalla stessa realtà. Così la società finanziaria che dava il mutuo – e che avrebbe dovuto chiedersi come avrebbe fatto il suo cliente a saldare il debito – vendeva i mutui che accendeva a una seconda società la quale assicurava la prima società dal rischio che un certo numero di mutuatari non avrebbe pagato il mutuo; a sua volta la seconda società rivendeva i suoi pacchetti a una terza società che assicurava la seconda che assicurava la prima. È così via.

Con un sistema di calcolo molto sofisticato dal punto di vista tecnico, il sistema finanziario pensava di aver così raggiunto una situazione nella quale avrebbe potuto crescere all’infinito, gestendo qualsiasi rischio. In fondo, la hýbris dell’uomo contemporaneo è stata proprio questa: la presunzione di aver raggiunto il punto di una espansione senza limiti. Come paradigmaticamente esemplificato dal caso della finanziarizzazione.


Ritengo sia importante mettere in relazione questa tendenza con la domanda proveniente dalla società: sono i cittadini liberi, siamo noi, che chiedevamo e chiediamo ancora oggi più possibilità di vita, pensando di aver trovato la pietra filosofale in grado di soddisfare tale esigenza. All’interno di questo schema, l’idea di una regolazione sparisce perché regolare vuol dire che c’è un principio di autorità, un sistema di potere e un criterio di valutazione per arrivare a porre dei limiti; la deregulation dava invece la sensazione che tutto potesse avvenire nel vuoto. In realtà non era così, ma così veniva raccontata.

Dalla potenza alla prepotenza

Questo circuito “potenza – volontà di potenza” ha prodotto “prepotenza”, termine col quale intendo un modo di trattare la potenza che prescinde da qualunque altra cosa oltre se stessa. Il sistema tecnico si autolegittima in base a quello che è capace di realizzare, in modo autoreferenziale rispetto alla propria logica: non c’è un altro da sé con cui si debba confrontare, e in questo senso tende a diventare, appunto, prepotente.

Ma la prepotenza vale anche nella sfera soggettiva: il prepotente è colui che non vuole sentire parlare di limiti alla propria volontà di potenza percepita come una sorta di diritto naturale: «Io ho diritto alla mia vita», egli dice, «in fondo di vita ne abbiamo una sola; perché dovremmo rinunciare alle possibilità che essa ci offre? Perché dovremmo accettare vincoli sociali, limiti? Perché dovremmo rispettare l’altro se questo diritto ci è costitutivo?».

La tesi che sostengo è che questa potenza, che emerge dalla storia, in quest’ultima fase storica tende a trasformarsi in prepotenza. Il prepotente è colui che vive la sua potenza, la sua capacità di fare, di agire, il suo rapporto col mondo, con “leggerezza” semplicemente cancellando ogni riferimento all’altro da sé. Ce l’hanno raccontato le pubblicità: «Tutto il mondo gira intorno a te», oppure «Power to you». Ma questo è segno di follia: folle è chi pensa che tutto il mondo giri attorno a sé. Si capisce che una narrazione di questo genere produce prepotenza nei rapporti sociali oltre che prepotenza sistemica.

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