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Mamma mi faccio prete

Saint Augustine and Saint Monica

© Public Domain / Wikipedia

L'Osservatore Romano - pubblicato il 27/05/15

Sul rapporto fra il ministro ordinato e le donne

di Maurizio Gronchi

La complessa relazione tra il ministro ordinato e le donne ha origine nel rapporto che questi ha con la propria madre. Senza voler scomodare improbabili letture psicoanalitiche che indagherebbero sui vissuti più antichi della relazione figlio-madre, ci limitiamo a constatare che per molti sacerdoti la mamma è la figura femminile di assoluto riferimento. Spesso si tratta di una donna forte, che, dopo aver inizialmente esitato ad accettare la scelta del figlio di entrare in seminario, in seguito ne è diventata la più determinata vestale. Una volta abbandonata la delusione per il sogno sfumato di immaginarsi nonna, si è fatta spazio la consolante prospettiva di non avere una nuora come rivale.

Con tutto l’impegno che comporta l’adattamento alla nuova e imprevista situazione, nella madre si è pian piano venuta a modellare la figura della protettrice. Se questo rapido schizzo sembra tratteggiare il profilo della madre prima resistente alla scelta del figlio e poi strenua custode di essa — che passa dal «non ti ci vedo» a «l’importante è che tu sia felice» —, altro è il caso della madre devota che, ispirata a santa Monica, ha talmente pregato il Signore per la vocazione del figlio che finalmente vede esaudito il proprio sogno, dal quale prende ideale distanza persuadendosi che è certamente volontà di Dio.

Accanto a questi fin troppo netti profili di madre stanno sicuramente tutte le gradazioni possibili. Peraltro, viene giustamente da chiedersi: dov’è il padre? Difficile rispondere quale ruolo svolga la figura paterna nella percezione dell’ideale femminile che il figlio maschio si è andato formando, fino alla vigilia di una scelta celibataria come quella sacerdotale o religiosa. Generalmente, il padre tende a mettersi in disparte, lasciando alla madre la precedenza nel manifestare emozioni, parole, paure, suggerimenti, con il probabile effetto della regressione cui il figlio viene esposto. Finché si parla di studio, di lavoro e di sport, la parola paterna è autorevole; quando sono in gioco gli affetti e i sentimenti, entra in gioco la madre. Ed è significativo che qui sembri non trattarsi di professione, ma di scelta vitale. Questo avviene almeno nelle famiglie tradizionali — quelle in cui si ritiene che meglio possano fiorire le vocazioni —, dove sulle questioni vitali occorre lasciare campo libero alla percezione femminile, che sente cosa è meglio, prevede come possono andare le cose, ha un sapere più ampio di quello che la praticità maschile non sa riconoscere. Solo se consultato, in via del tutto privata, il padre avanza le proprie perplessità, cautele, incoraggiamenti, ma difficilmente si manifesta in disaccordo con la moglie, anche se non è del tutto persuaso.

Se confrontiamo questa dinamica familiare-triangolare con quella che si attiva quando il figlio maschio frequenta assiduamente una ragazza indipendentemente da progetti matrimoniali, emerge un dato significativo che fa la differenza. 

Il figlio che ha una relazione sentimentale con una ragazza, più o meno gradita ai genitori, gode di maggiore libertà nel prendere o lasciare, mentre il medesimo giovane che annuncia di volersi far prete si trova dinanzi a genitori che lo vedono già all’altare a celebrare messa. 

L’immaginario popolare, infatti, ieri come oggi, associa alla natura religiosa della vocazione qualcosa di fatale, come un destino — fausto o infausto a seconda delle aspettative — che piove sulla testa di ciascuno, a cominciare dal figlio. Ora, ben consapevoli della semplificazione di questo quadro — che meglio sarebbe se venisse smentito —, ciò che qui interessa notare è la tendenza a prevalere della figura femminile nell’avversare o approvare la singolare scelta vocazionale del figlio maschio, spesso senza concedere quello spazio di libertà — del prendere o lasciare — che invece si aprirebbe nel caso di un fidanzamento, anche se vale sempre la clausola: «Se non te la senti, sei in tempo a ripensarci; meglio prima che dopo».

QUI L’ORIGINALE

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