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Oggi sarà beato. Ma chi fu veramente Romero?

Edizioni San Paolo - pubblicato il 23/05/15

Morozzo Della Rocca ripercorre la vita di un sacerdote scomodo e molto amato

Oscar Romero fu ucciso il 24 marzo 1980 da uno squadrone della morte, mentre celebrava all’altare. Da tre anni era arcivescovo di San Salvador, la capitale del Salvador. A lungo la sua figura è rimasta controversa. Romero è stato trasformato da una parte politica in un simbolo rivoluzionario, mentre la parte avversa lo vedeva come un agitatore comunista. Già all’indomani della morte esisteva un mito politico di Romero, accostato messianicamente a personaggi come Camilo Torres, «Che» Guevara o Salvador Allende. Questo produceva una reazione negativa in chi non si riconosceva in tale pantheon politico.

Le contrapposizioni sul nome di Romero sono state vivissime soprattutto all’epoca della guerra civile del Salvador, durata dal 1980 al 1992, con un saldo di 80.000 morti su quattro milioni di abitanti. Oggi si riconosce che Romero, sebbene uomo pubblico determinante per le sorti del suo Paese, era un personaggio della Chiesa prima che della politica, e che le sue visioni e amicizie si muovevano molto al di là delle divisioni fra conservatori e progressisti. Finché Romero visse, il Salvador non precipitò nella guerra civile. Questa iniziò proprio all’indomani della morte, venendo meno il suo impegno di pacificatore al di sopra delle parti. La beatificazione di Romero nella Chiesa cattolica, a seguito del riconoscimento del martirio in odium fidei, avviene allorché molti animi sono rasserenati, essendo ormai lontane le tensioni della guerra civile salvadoregna e del cruento scontro, in America Latina, fra regimi militari e guerriglie. Le strumentalizzazioni del vescovo martire sono molto ridotte. In tutto il mondo Romero riceve onori imparzialmente decretati. A lui sono dedicati monumenti, piazze, università, aeroporti, ospedali. Lo rievocano libri, film e opere teatrali. Ma chi fu veramente Romero?

Oscar Arnulfo Romero y Galdámez era nato il 15 agosto 1917 a Ciudad Barrios, cittadina dell’«Oriente» del Salvador, a 900 m di altitudine, non lontano dalla frontiera con l’Honduras. Il padre, Santos Romero, era il locale telegrafista. Non aveva un buon carattere ed era facile all’ira. Un podere, dote della madre Guadalupe de Jesús Galdámez assieme alla casa sulla piazza del paese, aiutava la famiglia a vivere con dignità. Vi lavoravano dei braccianti. Rispetto al loro ambiente, i Romero non potevano dirsi poveri. Come tutti a Ciudad Barrios, non avevano elettricità. I bambini dormivano insieme in letti comuni. Le foto della famiglia Romero mostrano volti dai tratti meticci come la stragrande maggioranza dei salvadoregni. A 4 anni Oscar fu colpito da una poliomielite che incise a lungo sulla capacità di movimento e di parola. L’infermità avrà conseguenze sul suo carattere, accentuandone l’intelligenza riflessiva. Oscar aveva il gusto delle parole e dei loro significati, era avido di sapere. Debole fisicamente, giocava poco con i coetanei. A scuola non era interessato alla matematica ed era bravo in lingua spagnola. L’infanzia, a parte la malattia, fu serena.

Oscar aveva cinque fratelli e due sorelle (ma una morì bambina). La madre di Oscar era molto religiosa, non altrettanto il padre. Santos insegnò ai figli preghiere e catechismo, ma i compaesani lo ricordano poco fervente e di costumi disinvolti. Ogni sera nella famiglia Romero si recitava il rosario. Il piccolo Oscar amava ritirarsi in preghiera nella chiesa del villaggio e alzarsi di notte per pregare, come testimonia il fratello minore Mamerto, che divideva il letto con lui e, per quanto lo riguardava, preferiva dormire. A 13 anni Oscar entrò nel seminario minore di San Miguel. Dalla fresca cittadina di mezza montagna, con un migliaio di abitanti, Oscar passò al capoluogo regionale, con 20.000 abitanti, nella calda pianura. La scelta avvenne perché il sindaco del paese, Alfonso Leiva, segnalò Oscar a padre Benito Calvo, il prete che da San Miguel regolarmente saliva a Ciudad Barrios ad assolvere le funzioni di parroco. Santos Romero aveva pensato per Oscar il mestiere di falegname e lo aveva già mandato a fare pratica in una bottega. Accettò che il figlio prendesse un’altra strada, ma ebbe poi un ripensamento e disse al vescovo di San Miguel che non intendeva più mantenere Oscar in seminario. Il vescovo non volle perdere il giovane e assunse parte delle spese. Anche Oscar lavorò per pagarsi il seminario. Passò tra l’altro un’estate in miniera.

Il seminario piacque al giovane. Era tenuto con sentimenti paterni e spirito umanistico dai padri claretiani. L’ambiente era provinciale nel senso migliore: quello della cura dei particolari, dell’apprendimento umile, della disciplina senza eccessi e senza ribellioni. Vivere con i compagni piaceva a Oscar. Amava l’idea di sacerdozio, la predicazione, la musica e il canto. Si rivelò presto un oratore non comune. La modestia dell’ambiente non impediva che i seminaristi venissero esortati a dare il meglio di sé. Il giovane Romero redigeva e rinnovava propositi e programmi di preghiera, di penitenza, di disciplina quotidiana, insomma di santificazione, come facevano del resto i seminaristi volenterosi d’ogni dove. Devozioni privilegiate in seminario erano quelle alla migueleña Vergine della Pace e al Sacro Cuore di Gesù, cui Romero per tutta la vita sarebbe rimasto fedele. Il vescovo di San Miguel, Juan Antonio Dueñas, volle formare a Roma i suoi due seminaristi più promettenti: Oscar Romero e Rafael Valladares. Quest’ultimo fu inviato a Roma sin dal 1934. Romero lo raggiunse nell’ottobre 1937.

I due giovani salvadoregni, stretti in un comune sodalizio di vita e amicizia che sarebbe stato sciolto solo dalla morte di Valladares nel 1961, furono a Roma ospiti del Pontificio Collegio Pio Latino Americano. L’ordinazione sacerdotale di entrambi avvenne a Roma, il 23 marzo 1940 per Valladares, più anziano di quattro anni, il 4 aprile 1942 per Romero. Valladares era un giovane intellettualmente fine, esigente, inquieto. La classe sociale, in Salvador, significava molto, e Rafael, nipote di Dueñas, era figlio di ricchi proprietari terrieri, a differenza degli altri seminaristi. Per Romero era un modello difficile da imitare ma Rafael, pur abituato a primeggiare, era abbastanza umile da voler bene a Oscar. Rafael manifestava sensibilità sociale, s’interessava alle novità, e ne parlava con Oscar. Era geniale e fantasioso, mentre Oscar aveva una maniera di pensare più sistematica. Nella biografia di Romero gli anni romani (1937-1943) sono fondamentali.

La «romanità» costituì un elemento decisivo della formazione di Romero e poi della sua identità di sacerdote e vescovo. Romero era della generazione di ecclesiastici coinvolta nel tentativo di riforma dello stato infausto, per non dire calamitoso, del clero latinoamericano sotto il profilo della disciplina e della spiritualità. Questa riforma si manifestò con la ferma volontà della sede centrale del cattolicesimo di dare un’impronta più romana alla Chiesa latinoamericana. Ciò significava la formazione di un personale ecclesiastico che fuoriuscisse da un certo provincialismo, che avesse un senso più universale della Chiesa, che avesse una salda disciplina morale, che distinguesse le sfere della Chiesa e dello Stato, che si discostasse dalla politica per dar primato all’ecclesiale e allo spirituale. Si trattava in qualche modo di rifondare la Chiesa latinoamericana, stante il decadimento delle strutture formative e la perdita del senso d’alterità della Chiesa rispetto alla società, dopo secoli di regime ispanico di Patronato e di commistioni tra sacro e profano. Madrid aveva escluso Roma dall’America Latina e lo stesso avrebbero tentato gli Stati nati dalla rivoluzione bolivariana, per tener soggetta la Chiesa.

Romero studiò all’Università Gregoriana, retta dai gesuiti, come dai gesuiti era pure condotto il Pontificio Collegio Pio Latino Americano. Conobbe e assorbì la spiritualità della Compagnia. Iniziò a praticare periodicamente gli esercizi spirituali ignaziani. Cosa fossero per Romero lo dice lui stesso in una nota intima del 1972: «Gli esercizi di sant’Ignazio sono uno sforzo personale di vivere il cristianesimo. Non sono i grandi principi generali della rivelazione o del Magistero, ma la conversazione personale di Dio. “Ho visto Dio”, disse Giacobbe. Deve essere la mia aspirazione profonda: “Parlami Signore”». Romero partecipò alla vita religiosa di Roma «italiana», come di regola accadeva ai chierici che venivano a studiare e formarsi nella città. Prestò servizio in parrocchie della periferia di Roma.

Un compagno messicano del Pio Latino Americano avrebbe così ricordato Romero:

Era di statura media, di carnagione bruna, con un portamento deciso, come uno che non ha fretta di arrivare perché sa che raggiungerà la mèta. Con altre persone era pacifico, calmo […]. Le sue capacità intellettive, per quanto mi ricordo, erano superiori alla media. Definirei lo stile letterario della sua prosa elegante, con mutamenti di linguaggio e metafore che le conferivano grazia e scioltezza. Quando leggeva ciò che aveva scritto, il suo modo espressivo di parlare dava più vita allo scritto […]. Era rispettoso dei regolamenti, pio, preoccupato della propria formazione sacerdotale sotto ogni aspetto. Con gli altri, sapeva stringere amicizia ed era apprezzato da noi che gli eravamo amici per la sua semplicità e il suo desiderio di rendersi utile.

Il soggiorno a Roma significò per Romero attaccamento affettivo alla figura del papa, mai dimesso nella sua vita, e particolare venerazione per Pio XI. Notò e ammirò la fermezza di colui che chiamava «Pontífice de talla imperial» dinanzi a ideologie e regimi totalitari. Il modello di vescovo forte rappresentato da Pio XI fu ammirato e interiorizzato da Romero ventenne. In seguito, egli avrebbe reputato l’esempio vivo di Pio XI, visto da vicino, più importante per la sua formazione che non il ciclo intero degli studi condotti a Roma. Per riprendere sue parole, egli ebbe a «vivere in Roma il dramma della Chiesa dinanzi ai totalitarismi di Hitler e di Mussolini e apprese dall’imperiale Pio XI l’audacia di affrontare senza paura i potenti per dire loro: “Finché io sarò Papa nessuno riderà della Chiesa”».

Nel 1963, in un articolo, descriverà la morte di Pio XI, avvenuta mentre scriveva un «trascendentale discorso […] che intendeva denunciare l’attitudine ipocrita dei moderni Nerone che martirizzano la Chiesa». «Questo è il papa che io ammiro di più» dirà Romero dinanzi alla tomba di Pio XI nel gennaio 1980, nell’ultima visita a Roma. Conosceva bene quella tomba. Aveva assistito alla deposizione in essa del defunto pontefice, il 14 febbraio 1939: «Lo vedemmo da vicino: il suo volto pallido, la bocca già livida; gli toccammo la mano destra con un’emozione indescrivibile». Papa Pacelli non impressionò altrettanto il giovane Romero che semplicemente vi vedeva il pontefice adatto al suo tempo: nel suo cuore solo Pio XI era «imperial». Roma confermò e accrebbe in Romero la deferenza verso il magistero della Chiesa. Era particolarmente impressionato dalle cerimonie solenni cui assisteva. Gli studi non erano orientati alla ricerca bensì alla formazione. Ma la formazione consisteva essenzialmente nello stare a Roma. Questo era un valore assoluto per se stesso, anteposto ai risultati scientifici degli studi.

Vent’anni più tardi Romero avrebbe osservato:


Il privilegio di aver studiato a Roma non fu valido tanto per il suo aspetto scientifico quanto per l’apporto morale di un’educazione sacerdotale completa nell’ambiente romano. Roma è il simbolo e la sintesi più bella della Chiesa. La Roma eterna, pur continuando a essere se stessa nei secoli, acquista le caratteristiche storiche che sono proprie delle singole personalità dei papi. È un miracolo della provvidenza: ciascun papa incarna nel suo modo di essere l’aspetto che più necessita in quel tempo alla vita della Chiesa. Era Roma stessa, secondo Romero, che preparava alla vita, quasi le sue istituzioni educative fossero secondarie: Per un seminarista che si prepara devotamente alle esigenze della sua vocazione, che bella scuola osservare e vivere una Roma che si dispiega sotto la mano visibile di Dio che è il Papa […]. La primavera romana possiede un mistero di ineffabile dolcezza; per le storiche vie, alla luce dell’aurora, i neo sacerdoti vanno a celebrare le loro prime messe ai più famosi altari della cristianità: catacombe, tomba di san Pietro, di san Paolo, Santa Maria Maggiore, ecc. E nell’anima appena consacrata resuscita tutto il fervore di martiri e pellegrini la cui storia è legata a quei centri di attrazione spirituale.

La documentazione sul soggiorno romano di Romero mostra un giovane affascinato dalla città dei papi e al tempo stesso intento con abnegazione ai suoi doveri di pietà religiosa e di studio. Semplicemente, Romero voleva essere santo. Scriveva alla madre una volta al mese, sottolineando di continuo che s’incamminava «verso la perfezione». Non avendo denaro per acquistare libri, Romero annotava manualmente schede di letture e pensieri che lo interessavano. La parte maggiore delle schede, da lui sempre conservate, riguardava la spiritualità, l’ascetica, la mistica. Non è insolito che l’interesse di un seminarista vada alla perfezione cristiana, ma in Romero questo interesse era molto pronunciato. Terminati gli studi ordinari di teologia, Romero volle specializzarsi per ottenere la laurea, con uno studio di ascetica. Non giunse alla discussione della tesi a causa della situazione di guerra, che lo sospingeva a ritornare in patria. Così Romero ricorderà quei giorni difficili:

L’Europa e quasi tutto il mondo erano un puro incendio durante la seconda guerra mondiale. Il timore, l’incertezza, le notizie di sangue creavano un clima di terrore. Nel Piolatino le razioni si riducevano ogni giorno di più. Il P. Rettore usciva per cercare qualcosa da mangiare e ritornava portando sotto la cappa zucche, cipolle, castagne, ciò che si poteva. La fame obbligò vari seminari italiani a chiudere. Il Piolatino doveva resistere perché tutti erano fuori dalla loro patria; quelli che potevano ritornare ai loro paesi rischiavano una pericolosa avventura. Quanti restavano soffrivano più che mai la separazione dalla patria. Le sirene annunciavano quasi tutte le notti incursioni di aerei nemici e bisognava correre nelle cantine; due volte non furono solo annunci ma le periferie di Roma furono colpite da orribili bombardamenti.

[Estratto da Roberto Morozzo della Rocca, "Romero. La biografia" (Edizioni San Paolo)]
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