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Karol, un poeta della pietra e dell’immenso

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Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 01/05/15
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Un amore per la poesia sbocciato nella prima giovinezza e che mai lo abbandoneràLo è per tutti i Pontefici, naturalmente. Ma lo è, in modo speciale, per Giovanni Paolo II, il primo Papa slavo, polacco, che ha conosciuto sulla sua pelle le tragedie del XX secolo. E dunque, non si può comprendere la figura di Karol Wojtyla – così come non si può comprendere il suo pontificato, imperniato sulla difesa della persona umana, della sua dignità, dei suoi diritti – senza risalire alle origini, alle radici della sua vocazione, alle diverse situazioni ed esperienze che ha vissuto. Compresa, ed è di questa che si vuole qui parlare, l’esperienza artistica.

Karol si accostò alla letteratura negli anni del liceo, a Wadowice, dov’era nato. E cominciando allora a far teatro, l’altra sua grande passione, si dedicò ovviamente ai maggiori autori classici: Mickiewicz, Slowacki, Krasinski. I quali nell’Ottocento, con la Polonia cancellata dalla carta geopolitica dell’Europa, erano riusciti a preservare il patrimonio della sua cultura, e perciò a salvaguardare l’identità stessa della nazione.

Ma, più ancora che dai grandi poeti romantici, Wojtyla venne influenzato dalla poesia di Cyprian Norwid. Un altro straordinario cantore della Polonia, ma più attento all’uomo, al rapporto tra fede e vita, a una visione più universale della storia umana. E, appunto da Norwid, il giovane Wojtyla imparò il linguaggio della poesia come comunicazione delle emozioni, dei sentimenti, dei propri ideali, della propria tensione spirituale, e, insieme, come interpretazione della realtà, dei fatti della vita umana.

Una poesia, quella di Karol, dove agli inizi si intuivano spesso accenni autobiografici. Come quella composizione della primavera del 1939, una delle prime, se non addirittura la prima, quando lui aveva 19 anni. Uno sfogo drammatico, perché esprimeva tutto il suo rimpianto, ma si potrebbe anche dire la sua “nostalgia”, per la mancanza della madre, scomparsa da tempo.

Sulla tua bianca tomba/ sbocciano i fiori bianchi della vita./ Oh quanti anni sono già spariti/ senza di te – quanti anni?/ Sulla tua tomba bianca/ ormai chiusa da anni/ qualcosa sembra sollevarsi:/ inesplicabile come la morte./ Sulla tua tomba bianca,/ Madre, amore mio spento,/ dal mio amore filiale/ una prece:/ A lei dona l’eterno riposo”.

Wojtyla fu un artista poliedrico. Fece teatro. E scrisse. Scrisse di tutto. Drammi storici. Testi teatrali. Saggi scientifici. Ma fu specialmente nella poesia che riuscì meglio ad esprimere il sensoprofondo di quello che egli stesso definì il “continente uomo”. E cioè, l’uomo in carne e ossa che si confronta con la propria libertà e con la speranza cristiana. L’uomo alle prese con i grandi interrogativi dell’esistenza. L’uomo spesso sfigurato, umiliato dai falsi umanesimi; e invece, in quanto figlio di Dio, in possesso di una propria fondamentale dignità.

Intanto, era scoppiata la Seconda guerra mondiale, la Polonia era stata invasa dai nazisti. E Karol, per non essere deportato in un campo di concentramento, fu costretto a fare l’operaio in una cava di marmo. Tuttavia, proprio quella esperienza gli fece conoscere la durezza ma anche il valore decisivo del lavoro: e da lì – come ricorderà da Papa – il “mistero dell’uomo” prese il primo posto nelle sue riflessioni, e si sentì spinto irresistibilmente a “perorare il rispetto dell’uomo”.
 

La pietra ti dà la sua potenza, il lavoro matura l’uomo/ che ne riceve ispirazione per un difficile bene./ Dal lavoro ha dunque inizio una crescita di cuore e di mente/ che tante persone coinvolge e tanti eventi importanti/ ed in mezzo ai martelli matura l’amore…”.

Questa poesia, del 1956, si chiamava appunto “La cava di marmo”. E, a un certo punto, si riempiva di tristezza, di angoscia. Karol era rimasto sconvolto dalla morte di un compagno di lavoro, investito dallo scoppio di una carica di dinamite.
 

“…Sollevarono il corpo. Sfilarono in silenzio./ Da lui ancora emanava fatica e un senso di ingiustizia…/ Lo stesero supino su un lenzuolo di ghiaia./ Venne la moglie disfatta. Tornò il bambino da scuola…/ Le pietre di nuovo si muovono. Il carrello sparisce/ tra i fiori./ Di nuovo una scarica elettrica incide la cava./ Ma l’uomo ha portato con sé la segreta struttura del mondo/ dove l’amore prorompe più alto se più lo impregna la rabbia”.

Ed ecco la grande decisione. Karol diventò prete. Studiò due anni a Roma e, al ritorno, trovò la sua Patria sotto un nuovo totalitarismo, il comunismo. Dopo una breve esperienza in parrocchia, si dedicò al ministero della Confessione e si occupò particolarmente di giovani e di coppie. In questo modo conobbe direttamente, e dall’interno, l’intera gamma dei sentimenti umani e dei problemi esistenziali: dai tanti interrogativi delle nuove generazioni di fronte a un futuro incerto, contraddittorio, e soprattutto troppo marcato da una concezione materialistica, alle gioie ma anche ai drammi della vita matrimoniale.

E tutto questo, mediato sempre attraverso una profonda sensibilità religiosa, spirituale, entrò nell’opera letteraria di Wojtyla. Come per esempio “La bottega dell’orefice”, uscita nel 1960, quando lui era già vescovo. E’ una pièce in versi, con il racconto di tre storie di coppie, diverse ma intrecciate tra di loro. E basta l’incipit per comprendere l’intensità con cui l’autore si era avvicinato al grande mistero dell’amore.

A parlare è Teresa, la protagonista della prima storia.

Andrea mi ha scelto e ha chiesto la mia mano./ E’ accaduto oggi tra le cinque e le sei del pomeriggio…/ Camminavo appunto nella parte destra della piazza,/ quando Andrea si voltò e disse:/ Vuoi essere la compagna della mia vita?/ Così disse. E non: vuoi essere mia moglie,/ ma: la compagna della mia vita…”.

Diventò arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla. E diventò il protettore di tutti i perseguitati dal regime comunista: gli operai, gli intellettuali, i giovani, gli ebrei, i revisionisti che speravano ancora in un socialismo dal volto umano. Wojtyla non si fermò davanti alle ideologie né alle fedi religiose: difese l’uomo, qualunque uomo venisse oppresso, calpestato nelle sue libertà, privato dei suoi diritti. E, da uomo di Chiesa, dette così il proprio contributo alla lotta per la giustizia, per la salvaguardia della memoria storica e della indipendenza nazionale. Anche questo, un altro dei grandi temi che, sempre per influsso di Cyprian Norwid, fu al centro della sua produzione poetica.

“Pensando Patria…” è una poesia composta da Wojtyla nel 1974. C’erano state le rivolte dei lavoratori, degli intellettuali e degli studenti, poi di nuovo degli operai sul Baltico. Erano cambiati i vertici del Partito comunista, Gierek al posto di Gomulka, ma tutto era rimasto come prima. I polacchi continuavano a vivere sotto il terrore, e il pericolo di sempre nuove repressioni.
 

Quando penso ‘Patria’ – esprimo me stesso, affondo le mie radici,/ è voce del cuore, frontiera segreta che da me si dirama verso gli altri,/ per abbracciare tutti, fino al passato più antico di ognuno;/ da questo emergo… quando penso ‘Patria’ – quasi celando in me un tesoro./ Mi chiedo come accrescerlo, come dilatare lo spazio che esso riempie”.

Alla gente che era ormai sprofondata nella disperazione, e non reagiva più, e subiva passivamente la prepotenza del regime, l’arcivescovo diceva parole di fuoco per spingerla al coraggio, alla resistenza.
 

Debole è il popolo quando acconsente alla sconfitta, quando/ dimentica la sua missione di vegliare fino a che/ giunga l’ora./ Le ore ritornano sempre sul grande quadrato della storia…”.
 

Si arrivò al 1978, l’anno dei due Conclavi. Albino Luciani era succeduto a Paolo VI, ma era morto improvvisamente dopo trentatré giorni soltanto. I cardinali si erano nuovamente riuniti, e, il 16 ottobre, accadde l’incredibile: per la prima volta nella storia un Papa polacco saliva sulla cattedra di Pietro. Eppure, l’ultima poesia che Karol Wojtyla aveva composto da arcivescovo di Cracovia, non sembrava far pensare a un futuro da Pontefice. Era dedicata a San Stanislao, e alla Chiesa che era nata dal suo martirio.
 

Voglio descrivere la Chiesa -/ la mia Chiesa che nasce insieme a me,/ ma non muore con me – ed io non muoio con lei/ che sempre mi sovrasta -/ Chiesa: il fondo e la vetta del mio essere./ Chiesa: radice tesa nel passato e nel futuro,/ Sacramento della mia vita in Dio che è Padre./ Voglio descrivere la Chiesa -/ la mia Chiesa legata alla mia terra…”.

 

Diventato Papa, Karol Wojtyla non scrisse più poesie – non ne aveva evidentemente il tempo – ma spesso nelle omelie, specialmente per Natale e per Pasqua, lo sviluppo del testo era quello di una composizione poetico-spirituale. E in diverse occasioni, inoltre, discorsi o anche documenti si concludevano con una preghiera scritta in forma poetica. Giovanni Paolo II continuava così a essere un grande “cantore” dell’uomo e un grande “testimone” della verità di Dio. Ed era esattamente la chiave di lettura che un famoso saggista polacco, Z. Kubiak, dette delle poesie di Karol Wojtyla: un poeta “della pietra e dell’immenso, ossia dell’umano terrestre e dell’umano divino”.

E alla fine, quando cominciò a veder avvicinarsi i cancelli della morte, Karol Wojtyla capì che, per esprimere ciò che provava dentro, non poteva farlo – ancora una volta, un’ultima volta – se non con il linguaggio della poesia. E così nacque “Trittico romano: meditazioni”, quasi un testamento spirituale. E’ un’opera in cui dominano la meraviglia e lo stupore dell’essere umano di fronte al Creato, e che, pur talvolta attraverso un difficile cammino, gli fanno scoprire la verità, l’amore e la sapienza del Dio Creatore.

In particolare, nella seconda parte delle tre “stanze” in cui si suddivide l’opera, Giovanni Paolo II si fermava in contemplazione sulla soglia della Cappella Sistina, ammirando il capolavoro di Michelangelo nel raffigurare l’atto straordinario della Creazione. E qui il Papa si rivolgeva – chiaramente – ai cardinali del futuro Conclave, auspicando che essi venissero illuminati e guidati dalla luce e dalla trasparenza delle immagini dell’artista.
 

Non omnis moriar (Non morirò del tutto) -/ quel che in me è imperituro,/ ora si trova faccia a faccia con Lui che E’!/ Così si è ripopolato il muro centrale della policromia sistina./….’Con-clave’ (Con la chiave): una compartecipata premura/ del lascito delle chiavi, delle chiavi del Regno./ Ecco, si vedono tra il Principio e la Fine,/ tra il Giorno della Creazione e il Giorno del Giudizio./ E’ dato all’uomo di morire una volta sola e poi il Giudizio!/ Una finale trasparenza e luce./ La trasparenza degli eventi -/ la trasparenza delle coscienze -/ Bisogna che, in occasione del conclave, Michelangelo insegni al popolo -/ Non dimenticate: Omnia nuda et aperta sunt ante oculos Eius./ Tu che penetri tutto – indica!/ Lui additerà…”.