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La strada per la Salvezza secondo Emanuele Severino

Emanuele Severino

© Flickr/Stefano Maffei/Creative Commons

Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 14/04/15

Presentato alla Lateranense il nuovo volume dedicato al pensiero del filosofo

Un volume che raccoglie il pensiero di un filosofo "scomodo" che ha teorizzato come l'Essere nella fede sia una "non verità", poiché si intende "la certezza in un contenuto che non si costituisce come verità". Una "sfida" al cristianesimo che negli anni ’70 è costata ad Emanuele Severino l'allontanamento dall'Università Cattolica di Milano dove insegnava e un “processo” al Sant’Uffizio sui suoi scritti.

Il volume di Giulio Goggi, intitolato "Emanuele Severino" (Lateran University Press), e presentato il 13 aprile alla Pontificia Università Lateranense, va a sviscerare il pensiero del filosofo. I temi della critica di Severino investono la fede intesa come volontà che il mondo abbia un senso piuttosto che un altro. Intesa in questi termini, la fede costituisce una violenza contro la pluralità irriducibile di tutti gli alternativi sensi possibili del mondo. Ed è contraddittorio anche il messaggio di fede (kérygma) in quanto avvolto dalla persuasione che il mondo sia creato, quindi esca dal nulla e vi faccia ritorno. Severino era arrivato a criticare alla radice la concezione della trascendenza di Dio e i capisaldi del Cristianesimo, che definiva "parte dell'alienazione essenziale dell'Occidente".

Goggi qual è la tesi su cui verte il suo volume?

«Al centro del volume sta l’affermazione dell’eternità dell’ente in quanto ente: dire che ogni ente è un eterno significa che non c’è stato un tempo in cui ancora non era e che non ci sarà un tempo in cui non sarà più; il tempo in cui l’ente “non è” è il tempo in cui l’ente, ossia il “non-niente”, è niente, e questa identificazione dei non identici (il “non-niente” e il “niente”) è l’impercorribile assurdo. Nel libro si sostiene la tesi che il discorso di Severino sul senso dell’essere (un discorso estremamente articolato e ricco di sviluppi importanti) si va a poco a poco assestando procedendo in modo fondamentalmente compatto rispetto al nucleo centrale dell’affermazione inaudita dell’eternità dell’ente in quanto ente – e che la “svolta” impressa dalla testimonianza di questa grande luce si traduce in una radicale messa in questione dell’intera storia dell’uomo, caratterizzata dalla persuasione che le cose siano nel tempo e cioè siano un “divenir altro”.

Nel libro si fa vedere che tutte le problematiche teoretiche e storico-teoretiche del discorso di Severino sono attraversate dal tema dominante della verità dell’essere considerata in rapporto alla questione della salvezza che trova la sua grandiosa soluzione negli scritti più recenti. Una delle implicazioni più rilevanti della tesi dell’eternità dell’ente – a sua volta implicata dalla necessità di tener fermo l’esser sé dell’essente – è la necessità che ogni sopraggiungente sia oltrepassato. Severino chiama questo procedere infinito degli eterni la Gloria della terra. Lo stesso Severino fa quindi vedere che questo dispiegamento culmina nella manifestazione della totalità di dolori e delle angosce apparsi lungo la storia del mortale e che questa manifestazione sopraggiunge nell'atto stesso in cui appare il Tutto concreto e infinito dell’essere che quei dolori e quelle angosce oltrepassa infinitamente. Siamo destinati a questa sovrabbondanza incipiente del Tutto, che Severino chiama la Gloria della Gioia, e alle sue manifestazioni sempre più alte e concrete. Nella sua ultima parte il libro si sofferma a lungo, ovviamente nei limiti consentiti da una monografia, proprio su questo tratto del discorso di Severino rispetto al quale, a tutt’oggi, non sono usciti degli studi specifici».

Nel paragrafo sulla “contraddizione della fede” si afferma che essere “nella fede” è sempre un trovarsi nella “non verità”. Cosa intende?

«Chiediamoci intanto che cosa significa “verità”. Se con questo termine intendiamo – come intende Severino – l’apparire di un contenuto capace di imporsi sulla propria negazione, allora l’apparire della “verità” è l’apparire di un contenuto incontrovertibile: qualcosa che non può essere diversamente da come è. Si tratta ovviamente di capire che cosa sia questo contenuto e qui il rinvio è a quella opposizione del positivo e del negativo cui ho fatto cenno poc’anzi quando ho parlato dell’esser sé dell’essente. Chiediamoci adesso che cos’è la fede. Secondo la definizione che ne dà l’autore della Lettera agli Ebrei, la fede è “l’argomento delle cose che non appaiono”. Nella Lettera ai Romani san Paolo dice però che la fede viene dall’ascolto della parola di Cristo. Ora il messaggio, in quanto ascoltato, è qualcosa che appare. Ebbene, in che senso si dice che i contenuti della fede “non appaiono”? Che cosa “non appare” in quel messaggio? A non apparire, ed è Tommaso d’Aquino a rilevarlo, è l’evidenza del suo contenuto, il che vuol dire, se proviamo a spingere fino in fondo il discorso di Tommaso, che quel contenuto è controvertibile: lo si può negare senza contraddizione.

In effetti, se così non fosse, l’oggetto della fede (ad esempio la divinità di Cristo) sarebbe qualcosa di deducibile dall’esercizio della pura ragione – e allora, come ama dire Severino citando Dante, “se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria”. D’altra parte, essere “nella fede” significa tenere fermo come “vero” un contenuto al quale l’intelletto aderisce perché ritenuto rispondente alle esigenze della natura umana. Accade allora che a ciò che è di per sé negabile (perché incapace di imporsi per se medesimo) la fede attribuisca le determinazioni formali della verità: l’indubitabilità, l’innegabilità. In questo senso Severino parla della “contraddizione della fede”, giacché la fede è tale nella misura in cui attribuisce ai contenuti che sono “non apparenti” i tratti della verità: di ciò che è controvertibile dice che è l’assolutamente non controvertibile. Se dunque la “verità” è l’evidenza del non controvertibile e se tutto ciò che non è evidenza incontrovertibile è per sua natura controvertibile e quindi è “non verità” – tra l’incontrovertibile e il controvertibile non c’è infatti alcun medio – allora essere “nella fede” (comunque la fede si determini) significa essere nella “non verità”».

Può riassumerci e adattare alla vita di un credente di tutti i giorni qual è l'implicazione “pratica” della verità, come descritta da Severino in Studi di filosofia della prassi?

«In quegli Studi Severino fa vedere che il sapere della verità è sì incontrovertibile, ma finito. Ora, l’essere finito è un essere “nella contraddizione” perché nel finito non appare la totalità compiuta e concreta dell’ente: appare la nozione del tutto, ma il tutto non appare nella esaustiva ricchezza delle sue determinazioni. Non essendo onniscienza, il sapere originario della verità ha poi a che fare con dei contenuti che si presentano come un “problema”. La verità si trova “praticamente” impegnata perché rispetto al problema ci si trova sempre a dovere in qualche modo decidere, fermo restando che, quale che sia il modo in cui si prende posizione rispetto ad esso, si è sempre “nella fede” e quindi nella “non verità”. Negli Studi di filosofia della prassi Severino riteneva che il contenuto del cristianesimo fosse un autentico problema e prospettava la possibilità che l’adesione a quel determinato contenuto fosse ciò che fa uscire la verità dalla finitezza in cui si trova, liberandola dalla contraddizione, per quanto al finito sia possibile uscire dalla contraddizione. Tuttavia, poiché si tratta soltanto di una possibilità, valeva anche l’opposto e cioè la possibilità che proprio l’aver fede in quel contenuto fosse ciò che, anziché aprire la verità al pieno dispiegamento dell’essere, la chiude disperdendola per sempre.

La tesi degli Studi è che l’io, inteso come l’apparire della verità, sia anche principio di un’azione (la prassi) quale via che può condurre alla salvezza della verità. Protagonista di tale azione non è dunque il “credente” come punto di vista diverso dalla verità (ogni sguardo che sia altro dalla verità è sguardo non veritativo), ma la stessa struttura originaria della verità la quale, dovendo comunque decidere, è essenzialmente legata al credere, anche se non ad una fede particolare qual è la fede cristiana. In seguito Severino avrebbe sostenuto che il “fare”, implicante la fede nel “divenir altro” delle cose, appartiene all’alienazione della verità, sicché nessuna decisione può condurre alla salvezza. La conclusione cui perviene il discorso è che per la salvezza della verità contrastata dall’errore (la persuasione che le cose siano un “divenir altro”) si richiede il tramonto del “fare” e quindi della fede – tramonto che non è affidato a una libera volontà, ma è quella necessità per cui l’uomo è destinato alla manifestazione concreta del Tutto».

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