A volte la nostra fede è appassita, senza forze, spenta, è una fede senza lacrime, senza carne, senza passione
Voglio rallegrarmi per la chiarezza della Resurrezione in questi giorni che seguono la Pasqua. Abbiamo trascorso 40 giorni di anelito, di preparazione, di desiderio, di dedizione, di sogno. Ora ne arrivano cinquanta di festa in cui voglio proclamare al mondo la mia gioia per la presenza di Dio nella mia vita.
Il Giovedì Santo mi ha commosso vedere i portantini piangere tornando in chiesa con le immagini dopo sei ore di processione.
Erano dispiaciuti pensando che fino all’anno prossimo non avrebbero portato Gesù e Maria per le strade. Mi ha colpito quella fede che si tocca con mano. Mi hanno commosso le loro lacrime uscendo e rientrando.
Ho aspettato con tanto desiderio per un anno l’arrivo della Veglia pasquale del sabato? Ho pianto di emozione quando è arrivata quella notte santa? Mi sono preparato con la loro costanza per tanti giorni per essere pronto e nervoso il giorno in cui Gesù risorge?
A volte la nostra fede è avvizzita, senza forze, spenta. È una fede senza lacrime, senza carne, senza passione. Una fede troppo sobria. Una fede che non soffre e non si emoziona. Al massimo si esprime parcamente in un desiderio di mostrare al mondo che Gesù vive, ma non ride con vigore né piange commossa.
Magari mi commuovessi come quei portantini pensando a questo tempo santo di Pasqua. Magari fossi rimasto ammutolito come loro il Venerdì Santo guardando Gesù morto sulla croce, che si caricava il peso del legno.
Quando manca la passione, l’amore si indebolisce. La nostra fede si riempie di parole, di gesti vuoti e abbracci poco effusivi. Vorrei avere un cuore capace di appassionarsi in quel modo. Un cuore innamorato che piange e ride.
Gesù è passato commuovendo gli uomini. L’altro giorno leggevo: “Gesù rende presente Dio irrompendo nella vita dei suoi ascoltatori. Le sue parabole commuovono e fanno pensare; toccano il loro cuore e li invitano ad aprirsi a Dio; scuotono la loro vita convenzionale e creano un nuovo orizzonte per accoglierlo e viverlo in modo diverso”.
Gesù commuoveva quanti lo seguivano. Vorrei commuovermi come loro. Voglio lasciare che la porta del mio cuore resti aperta perché Egli possa entrare lentamente.
La chiudo tante volte perché non voglio che nel mio disordine regni il suo ordine e non voglio che i miei progetti possano non coincidere con i suoi. Non piango con il suo pianto. Non rido con le sue risate.
Una persona pregava: “Mi rallegra poterti donare la vita con dolore. Mi fa male, e facendolo recupero quella consapevolezza di non essere nulla. ‘Sono’ solo quando sono in te. Piango, Signore, ma piango con pace. Piango felice di essere ciò che vuoi da me. Gesù, mi fa male, ma questo dolore è amabile. Piango con te, piango in te, e questo pianto mi rende felice”.
Voglio piangere ed emozionarmi nella sua croce, nella sua resurrezione. Mi vedo debole e ferito e vedo la sua ferita quel pomeriggio della resurrezione. Mi commuove il suo amore che mi cerca, che scende dalla croce per avvicinarsi. Quell’amore che non si dimentica del mio dolore. Che soffre e ride con me. Quell’amore che è il suo abbraccio che mi aspetta.
Mi commuove quel Dio tanto umano che adatta la forma della sua croce a quella delle mie braccia. Perché non soffra. Perché riposi sul suo legno. Perché impari a riposare al suo fianco.
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]