La coppia umana: a immagine del suo amoreNelle stesse prime pagine della Genesi (cc. 1-2) la coppia umana entra subito in scena. Essa è il paradigma fondamentale di qualsiasi altra relazione interpersonale. Da essa fluisce la generazione e quindi la famiglia e, in un certo senso, la stessa storia della salvezza. Ebbene, qual è il percorso dell'amore che nutre e sostiene la coppia umana? Che cosa ci dicono in merito le pagine bibliche della creazione, situate in quei primi capitoli della Genesi? Da esse estraiamo solo due motivi di riflessione piuttosto settoriali, ma rilevanti.
Il primo motivo di riflessione concerne il tema dell'“immagine” di Dio, esplicitata in Gen 1,27. Quel passo è elaborato secondo i canoni del parallelismo (nella fattispecie gli studiosi parlano di un parallelismo “chiastico progressivo”), una delle norme capitali della letteratura biblica, soprattutto poetica, importante per comprendere – attraverso appunto i paralleli, cioè le riprese tematiche, le ripetizioni di significato – il senso profondo di un passo.Il versetto si apre con la dichiarazione: “Dio creò l'uomo a sua immagine”, che viene ribadita in forma “chiastica”, cioè invertita: “A immagine di Dio lo creò”. A questo punto si ha una sorpendente puntualizzazione dell'“immagine” divina nella creatura umana: “Maschio e femmina li creò”. Quindi a “immagine di Dio” corrisponde in prarallelo la bipolarità sessuale. Si noti che l'autore sacro (la tradizione cosiddetta “Sacerdotale” del VI secolo a.C.) non usa i due termini socio-psicologici 'ish (uomo) e 'ishshàh (donna), presenti e spiegati nell'altro racconto del capitolo 2 (v. 23), bensì quelli fisiologici di zakàr, che allude all'organo sessuale maschile (alla lettera: “puntuto”), e di neqebàh, che è il parallelo femminile (alla lettera: “forata”), facendo quindi esplicito riferimento alla sessualità maschile e femminile.
E' scontato che per la Bibbia Dio non sia sessuato, come insegna la costante polemica contro l'idolatria del culto sessuale di Baal, proprio delle popolazioni locali indigene della Terrasanta, i Cananei. L'“immagine” divina è allora da cercare nella potenza generatrice della coppia, che è una sorta di continuazione, nella storia, dell'atto creativo di Dio, tant'è vero che la successiva narrazione “sacerdotale” della Genesi è tutta ritmata su una serie di genealogie (1,28; 2,4; 9,1.7; 10; 17,2.6; 25,11; 28,3; 35,9-11; 47,7; 48,3-4). La capacità di generare, propria della coppia umana, è la via sulla quale continua la creazione, ma sulla quale si snoda anche la trama della storia della salvezza. Dio resta trascendente e non è né maschio né femmina, anche se simboli di questo genere esprimono alcune caratteristiche della sua personalità. Egli, però, come creatore ha la sua rappresentazione ideale non nel solo maschio, come vorrà una successiva tradizione giudaica, ricalcata anche da san Paolo (1Cor 11,7), ma nella coppia umana che si ama e genera. Essa diventa così la “statua” più somigliante di Dio (ed è anche per questo che s'introdurrà nel Decalogo il divieto di costruire immagini materiali divine).
La fecondità della coppia umana è, quindi, parallela all'atto creativo di Dio, è un segno visibile del Dio creatore e salvatore. Il nostro legame naturale con il Creatore è da cercare proprio nella persona umana, in quanto comprende la bipolarità sessuale, la fecondità, la capacità di possedere e dare la vita e, quindi, in senso più lato, l'amore. Siamo, perciò, lontani da una tradizionale interpretazione che vedeva nell'anima il tratto distintivo della nostra “somiglianza” a Dio, come affermava sant'Agostino, che in La Genesi difesa contro i Manichei scriveva: “Che l'uomo sia fatto a immagine di Dio viene detto a causa della parte intima dell'uomo, ove ha sede la ragione e l'intelletto […]. L'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio soprattutto per quanto riguarda l'anima” (1, 17, 28). Il celebre Padre della Chiesa rileggeva la Genesi alla luce della cultura greca, cogliendo un aspetto nuovo, mentre in realtà – con una certa semplificazione – potremmo dire che la Bibbia optava per la via dell'amore fecondo rispetto a quella dell'intelligenza spirituale propugnata dalla classicità greca.
Passiamo ora alla nostra seconda considerazione, dai contorni forse più curiosi. Anni fa, dopo aver presentato a Milano un romanzo di uno dei maggiori scrittori francesi contemporanei, l'Eleazar di Michel Tournier, fui con lui invitato a cena in un ristorante del centro cittadino e, a tavola, ebbi una discussione amabile ma netta su una sua idea, per altro non nuova (fu sostenuta già nel 1918 da un noto studioso del tempo, Salomon Reinach, e ripresa nel 1936 da Alexandre H. Grappe e da altri ancora successivamente): la narrazione di Gen 2, sulla formazione della donna dalla costola dell'uomo, non sarebbe una rappresentazione simbolica della comune qualità umana dei due, tant'è vero che essi avrebbero un nome identico, declinato al maschile ('ish) e al femminile ('ishsàh), quanto piuttosto sarebbe una ripresa del mito dell'androgino, cioè di un essere primigenio che univa in sé qualità maschili e femminili, destinate successivamente a dissociarsi. Certo, si deve riconoscere che questa interpretazione della genesi della bipolarità sessuale s'affaccia in molte civiltà, come è stato attestato dal famoso studioso di storia delle religioni Mircea Eliade nel suo Trattato di storia delle religioni.
Nel IV secolo a.C. un sacerdote babilonese, Berosso, evocava l'androginismo come una dottrina già presente nel mondo sumero-accadico. Ma fu Platone a rendere popolare questa teoria, mettendola in bocca ad Aristofane nel dialogo sull'amore, il Convivio (o Simposio). Ecco alcune battute di quel testo: “In principio tre erano i sessi degli uomini, non due come ora: maschio, femmina e il terzo sesso che partecipava ai caratteri di entrambi gli attuali. Un tempo, dunque, l'androgino era un unico essere vivente, formato dagli altri due sessi insieme riuniti, maschio e femmina […]. Che vigore, che potenza di forza presentava questa duplice creatura e quale sterminato orgoglio! Decise, allora, di tentare una scalata al cielo con l'intento di far violenza agli dèi […]. Zeus pensò a lungo e alla fine si decise: Taglierò in due ciascun uomo [androgino]. Saranno così più deboli e nello stesso tempo ci potranno servire meglio perché il loro numero sarà più grande”.
Platone trova in questa divisione operata da Zeus nell'androgino la radice della potenza attrattiva dell'eros tra uomo e donna che tende a ricondurre la creatura alla sua unità primigenia: “Da un'origine così remota è innato nell'uomo il reciproco amore. Amore riconduce all'antica condizione, cerca di far uno ciò che è due, cerca così di medicare la natura umana. Ciascuno di noi è un pezzo solo, è la metà dell'uomo intero […]. Era uno e ora sono due. Ciascuno, allora, continua a cercare l'altra metà che gli corrisponda […]. All'origine eravamo tante singole unità; allo stato attuale, in seguito alla nostra colpa [l'assalto orgoglioso contro gli dèi], Dio ci ha separati, uno in una dimora, l'altro in un'altra” (Convivio 189d-193d). In pratica l'amore avrebbe una funzione “simbolica” (da syn-bàllein, “mettere insieme”), quella di ricondurre all'unità ciò che è scisso e quindi imperfetto.
Supponendo pure che l'autore – nel caso del capitolo 2 della Genesi, la cosiddetta tradizione Jahvista – conoscesse il mito dell'androgino, bisogna però dire che lo ha profondamente trasformato, tanto da renderlo irriconoscibile. Gli esegeti propendono, anzi, per un'indipendenza da tale visione, anche se non ci si deve stupire che nelle pagine genesiache della creazione ci si imbatta in rimandi o recuperi di antiche mitologiche cosmologiche, sottoposte però a un'operazione vigorosa di demitizzazione e di depoliteizzazione. La differenza rispetto al mito dell'androgino così come è formulato da Platone è, comunque, netta e non solo perché la concezione del filosofo greco suppone una divisione anche nei maschi e nelle femmine primordiali non androgini così da giustificare l'omosessualità: “Tutte le donne tagliate dall'unico sesso femminile hanno propensione per altre donne e quanti sono taglio del sesso maschile vanno dietro ai maschi” (191d).
La differenza radicale sta nel fatto che, mentre per Platone lo stato ideale è nell'unità androgina, per la Genesi “non è bene che l'uomo sia solo” (2, 18), mentre la realtà “molto buona/bella” è che esistano i due sessi (1,31), la cui identità non è una maledizione, bensì una benedizione divina (1,28).
Inoltre la creazione dei due sessi è vista non come conseguenza di un peccato di ribellione contro Dio, bensì come un atto d'amore del Creatore nei confronti della sua creatura che si sente sola e imperfetta e che riceve, perciò, un dono, un 'ezer kenegdò, come dice l'ebraico, cioè un aiuto e una presenza che gli stia “di fronte”, in un dialogo d'amore. La considerazione finale sulla “carne sola” (2,24) che l'uomo e la donna costituiscono, tenendo conto del significato biblico del vocabolo basàr (carne), non rimanda solo all'atto sessuale o alla generazione del figlio (che è una “sola carne” dei due genitori), ma anche alla condivisione dell'esistenza umana nella sua realtà mutevole e caduca (cfr. Is 31,3; Sal 78,39).
Siamo, quindi, su un piano più psicologico-esistenziale che metafisico; siamo di fronte a un'antropologia teologica che cerca di illustrare il valore costitutivo delle relazioni che la creatura umana intesse con Dio (l'alito vitale e la neshamàh, che in pratica è la coscienza in Gen 2,7), con la materia e gli animali (“coltivare, custodire la terra” e “dare il nome agli animali”) e, infine, con il prossimo, incarnato nell'archetipo matrimoniale. La prospettiva è, perciò, molto più elaborata e di chiaro impianto etico-teologico, tant'è vero che il peccato sarà compiuto dalla coppia, ma secondo la propria identità e responsabilità individuale: inizia la donna e l'uomo s'associa e a ciascuno dei due sarà assegnato uno specifico giudizio divino, come si evince dalla lettura del capitolo 3 della Genesi.
Siamo, dunque, in presenza di un più complesso e articolato sistema di pensiero, che ha soprattutto nella libertà della creatura umana il suo asse portante. Non per nulla è emblematica la scena dell'uomo che è collocato solitario ai piedi dell'albero della “conoscenza del bene e del male”, ossia della scelta morale. Nella Gaudium et spes (n. 16) il Concilio Vaticano II dichiara che “la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo”, è la sede in cui “l'uomo si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria”. Una voce che “lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male e, quando occorre, dice chiaramente alle orecchie del cuore: fa questo, fuggi quest'altro”. E tutto questo accade sia all'uomo sia alla donna, nella pienezza della loro libertà.
[Tratto da Gianfranco Ravasi, "Generare la vita. Maschio e femmina li creò" (Edizioni San Paolo)]