In mostra a Torino la Via crucis di Fernando Boterodi Giuliano Zanchi
Quel mondo di tribù di cui spesso parla Michel Maffessoli, all’interno del quale gli esseri umani del nostro tempo sembrano aggregarsi, secondo variabili criteri prossemici, in raccolte nicchie di elezione, sembra riflettersi perfettamente nel perimetro dell’odierna cultura artistica, che ha preso la forma di una sorta di costellazione di pratiche anche molto eterogenee tenute insieme dal semplice fatto di essere contemporanee.
La linea evolutiva della storia dell’arte, lungo la quale uno stile prendeva il posto dell’altro dentro un chiaro criterio di progressione, si è, almeno per ora, improvvisamente interrotta e attorcigliata attorno a un eterno presente dove tutti gli stili convivono e tutte le contaminazioni sono possibili. È come se il fiume dell’arte si fosse gettato dentro un vasto lago in cui può nuotare ogni genere di essere acquatico. A dominare le acque è ovviamente quella cultura estetica che ci siamo abituati a chiamare “arte contemporanea”, i cui confini di appartenenza e le cui graduatorie di successo sono determinate da una neanche troppo complessa alchimia fatta di mercanti, galleristi, musei e critici che contano. Nel bene e nel male essa è diventata l’estetica del nostro tempo. La sua egemonia però non impedisce l’esistenza, l’affermazione e il successo di altre tribù dell’arte, aggregate attorno a predilezioni formali non allineate, spesso debitrici di un passato figurativo tenuto a lungo ai margini dell’ortodossia artistica ufficiale. Nell’orbita di questi vasti cerchi concentrici hanno così cominciato a ruotare esperienze anche molto singolari, capaci di vasto consenso pubblico, anche quando non sempre fornite di un regolare permesso di soggiorno nella piena cittadinanza contemporanea dell’arte.
Questo è il caso di Fernando Botero di cui è sbarcata a Palermo, nelle Sale di Duca di Montalto del Palazzo Reale, un’esposizione di opere a soggetto religioso intitolata «Via Crucis. La Pasiòn de Cristo», dopo aver fatto tappa a New York, Medellin, Lisbona e Panama. Assai sospetto alla critica di avanguardia, Fernando Botero, nato a Medellin nel 1932, si è conquistato una fama planetaria grazie all’invenzione di un universo iconografico abitato da figure più che grasse “espanse”, come preferirebbe definirle lo stesso artista, in cui uomini e cose acquistano dimensioni deformate e insolite, mettendo in scena situazioni sospese e quasi prive di tensione psicologica. La piacevolezza e in qualche caso l’evidente ironia di questi squarci di un mondo fantastico hanno decretato la fortuna di questo genere di pittura presso il largo pubblico, conquistato da una immediatezza quasi naive. Il primo sguardo corre subito alla citazione del realismo magico di Gabriel Garcia Marquez, benché Botero spergiuri di aver cominciato a lavorare secondo questo stile ben dieci anni prima che il grande scrittore colombiano scrivesse Cent’anni di solitudine. Difficile però non percepire un analogo profumo di incantesimi in questa sorta di placido e sornione sortilegio di obesità sotto gli effetti del quale i suoi quadri ci invitano a osservare il mondo.