Parla il cardinale Giuseppe Versaldi, nuovo prefetto della congregazione per l’Educazione cattolica“Interdisciplinarietà” è una parola che si sente spesso alla Gregoriana. E d’altra parte, quando l’offerta accademica annovera sei Facoltà, due Istituti e quattro Centri, mettere in comune le ricchezze di ognuno significa semplicemente moltiplicarle. Il percorso personale di ogni ricercatore conduce lungo sentieri inediti, che richiedono un accompagnamento fatto di fiducia e discernimento. Forse neppure il Cardinale Giuseppe Versaldi immaginava dove lo avrebbero condotto i percorsi dello studio.
Eminenza, vuole raccontarci la sua lunga esperienza alla Gregoriana, da studente a docente? Cosa significa trovarsi a essere “colleghi” dei propri maestri?
«Ringrazio ancora oggi il Signore che ha voluto che nel 1972, dopo alcuni anni di ministero pastorale e di responsabile del Seminario, potessi iniziare i miei studi universitari alla Gregoriana iscrivendomi all’Istituto di Psicologia, fondato l’anno precedente da P. Luigi M. Rulla. Avevo conosciuto P. Rulla a Vercelli, essendo egli fratello del Parroco dove era stato inviato come coadiutore appena dopo l’ordinazione. Secondo il più genuino spirito ignaziano, ho ammirato e cercato di apprendere l’amore per lo studio a servizio della Chiesa a maggior gloria di Dio. Sono stati anni duri ed intensi in cui, grazie all’indirizzo del medesimo Istituto di Psicologia – dove lavoravano altri validi insegnanti, tra cui P. Franco Imoda – ho potuto conoscere la Facoltà di Diritto Canonico con la quale si è avviata una collaborazione interdisciplinare che mi ha portato a conseguire la laurea in Diritto Canonico e, in seguito, il titolo di Avvocato Rotale. Ho potuto così beneficiare prima dell’insegnamento e poi della collaborazione di validi canonisti come P. Beyer, P. Navarrete, P. Gordon, P. Robleda e successivamente di P. Ghirlanda. Di tutti questi grandi personaggi ho stimato l’impegno totale nella ricerca scientifica e nello stesso tempo la profonda umiltà e pietà religiosa che si esprimeva in una vita povera e semplice a servizio degli studenti e della Curia Romana».
Lei ha tradotto dall’inglese Depth psychology and vocation, importante opera di padre Luigi M. Rulla. Ne conserva un ricordo particolare?
«Il ricordo di P. Rulla è per me un’eredità preziosa che ancora oggi mi è di stimolo nei miei impegni ecclesiali. Non posso dimenticare l’ammonimento con cui congedò noi studenti al termine dei corsi all’Istituto di psicologia. Egli ci indicò il criterio con cui in futuro avremmo potuto riconoscere se stavamo facendo la volontà di Dio: “Se lavorerete con sacrificio, nel nascondimento e in mezzo a difficoltà, state certi che siete sulla giusta strada”. La sua vita è stata la prova di quanto ci ha comunicato attraverso il suo lavoro scientifico nel campo del discernimento vocazionale e nella costruzione di un’antropologia capace di integrare con le scienze religiose i contributi delle scienze umane depurate dalle premesse antropologiche contrarie alla fede cristiana».
Quanto contano, per i docenti di una Università Pontificia, i rapporti che si sviluppano al di fuori delle lezioni?
«Questo stile di vita che ho ammirato in P. Rulla era il comune denominatore dello stile dell’intero corpo docente di questo Ateneo, dove, anche al di fuori delle lezioni, c’era piena disponibilità di accedere ai Professori per avere consigli ed indirizzi nei propri studi. Si aveva così l’occasione di vedere la vita austera, anche dal punto di vista logistico, di questi famosi insegnanti che vivevano in una modesta unica stanza e facevano l’ordinaria vita comune con i confratelli di qualunque grado».
La sua formazione e docenza hanno toccato tanto la Psicologia quanto il Diritto canonico. Con quali conseguenze?
«Proprio la collaborazione tra l’Istituto di Psicologia e la Facoltà di Diritto canonico mi ha stimolato allo sviluppo del metodo interdisciplinare specialmente nella materia dei processi matrimoniali in cui, nel caso di perizie richiesta dal Giudice, si chiedono importanti risposte ai periti nelle scienze psicologiche e psichiatriche. In questo campo ho trovato una certa incomprensione nello stesso linguaggio e, ancor più, nella sostanza dei problemi di comune interesse. Avendo una formazione in entrambi i campi, potevo riconoscere alcuni equivoci e cercai di dare il mio contributo per risolverli».
Il mondo della soggettività da un lato, l’oggettività delle norme dall’altro: due ambiti apparentemente molto distanti.
«L’esempio citato – la necessaria oggettività delle prove riportate dai periti psicologi e psichiatri – dimostra appunto l’equivoco di partenza non avvertito: non si scorge che la diversità del metodo di indagine nelle diverse scienze porta alla necessità di un uso analogico del concetto di oggettività senza con questo impedire il raggiungimento della certezza morale a fondamento dei pronunciamenti canonici. D’altra parte, le stesse esigenze giuridiche possono stimolare le scienze umane ad uscire dall’inganno di una presunta neutralità antropologica che si traduce inevitabilmente in un riduzionismo antropologico. È un campo ancora insufficientemente esplorato, ma capace di portare a veri progressi in ogni campo del sapere, secondo l’insegnamento di P. Bernard Lonergan, al cui pensiero mi sono ispirato nella mia ricerca».
Tra i suoi scritti, spiccano diversi articoli sul celibato sacerdotale e un volume su “Cristo modello degli sposi”. Come dire: la formazione di un’affettività matura interessa ogni stato della vita cristiana.
«Il campo dell’affettività è stato di grande interesse per le circostanze stesse della mia vita. Infatti, quando l’Arcivescovo mi mandò a studiare psicologia a Roma, lo fece con lo scopo che io al ritorno in diocesi fondassi il Consultorio familiare per la preparazione e l’aiuto ai giovani e agli sposi, le cui difficoltà Mons. Mensa già allora ben intuiva e a cui voleva rispondere non solo con la conferma della teologia e della morale, ma anche con l’aiuto concreto delle scienze umane. Lo studio e l’esperienza mi hanno sempre più convinto della necessità di una formazione alla maturità umana come condizione per qualunque vocazione senza l’illusione che vi siano vie privilegiate che automaticamente assicurino risultati senza di essa, perché, come scriveva Paolo VI, non bisogna illudersi che la grazia, in questo campo, possa miracolosamente supplire alle debolezze umane (Sacerdotalis coelibatus)».
La Chiesa deve investire maggiori energie in questo campo?
«Sommessamente ritengo che non siano mai sufficienti gli sforzi per migliorare il momento formativo integrale come azione preventiva delle difficoltà e, purtroppo, anche degli scandali che troppo sovente capitano anche tra persone che hanno fatto scelte alte e generose nella Chiesa».
Sant’Agostino, che ha descritto «ricco di umanità nella sua fragilità e nel suo cammino di conversione, pieno di umanità che conforta coloro che tribolano nel cercare la fede», le è molto caro.
«Ho avuto dalla Provvidenza il dono di accostarmi al carisma agostiniano, quando, per impratichirmi della lingua inglese, nel 1974 fui ospitato nel Collegio S. Patrizio degli Agostiniani irlandesi a Roma. Da allora sono stato sempre loro ospite, anche quando nella metà degli anni ‘80, quella comunità irlandese si trasferì al Collegio agostiniano internazionale di S. Monica. Devo dire che, già negli anni della formazione in Seminario a Vercelli, venendo a conoscenza della vita di sant’Agostino, ne rimasi conquistato in quanto, a differenza di altri Santi che ci venivano presentati così… “santi”, Agostino confessava esplicitamente il suo cammino di peccatore convertito e metteva in evidenza gli inganni che il mondo tende con tutte le sue concupiscenze. Penso che ancora oggi sant’Agostino possa essere un grande testimone specialmente per i giovani, così sovente vittime dei sempre più sofisticati inganni della società moderna».