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“Suonare” la speranza in Siria

Chiara Santomiero - Aleteia - pubblicato il 19/03/15

Musica barocca ad Aleppo sotto le bombe nei concerti "Voci per la pace". La voglia di vivere di chi non sa se avrà un domani

Quattro anni di guerra e oltre 215 mila morti, 12 milioni di sfollati e 3,8 milioni di rifugiati. Il dramma della Siria che non riesce a trovare pace si esprime nei numeri del conflitto. Il 75 per cento dei cristiani ha abbandonato il Paese cercando rifugio in vari paesi del mondo e il resto vive di aiuti umanitari tra macerie e distruzioni. Ma la voce della musica riesce ancora a portare gioia a chi dispera di avere un domani. Aleteia ha incontrato a Roma padre Yeghiche Elias Janji, sacerdote della chiesa armeno cattolica di Aleppo, direttore dell'orchestra da camera e del coro "Naregatsi".

Qual è la situazione oggi ad Aleppo?

Janji: Terribile. Quando usciamo di casa, non siamo in grado di dire se torneremo vivi. Letteralmente. Le persone non nutrono più speranze. Convivono con la morte. Pensano che da un momento all'altro un bombardamento le seppellirà nella propria casa o che arriverà l'Isis ad uccidere tutti. La zona che era cristiana, ma adesso è mista, corrisponde al 30% del territorio di Aleppo ed è sotto il controllo dell'esercito regolare, ma sottoposta a un continuo bombardamento. Il 40% della città è già distrutto e il resto è nelle mani delle forze che si oppongono al governo o dell'Isis. Il 75 per cento dei cristiani è fuggito. Sono rimasti solo quelli che non possono andare via perchè non hanno i soldi per farlo. E, per la maggior parte, non hanno nemmeno i soldi per sopravvivere: mangiano grazie ai pacchi viveri della Caritas o del Jesuit Refugee Service o delle varie chiese cristiane.

Dove sono oggi i cristiani di Aleppo?

Janji: Dappertutto. Sono andati in Svezia o in Germania e anche negli Stati Uniti o in Canada. Molti armeni hanno trovato rifugio in Armenia. Come ha chiesto anche il vescovo armeno cattolico di Aleppo, mons. Butros Marayati, sarebbe d'aiuto che i cristiani siriani possano ricevere lo status di rifugiati dalle ambasciate europee in Siria così da avere un accesso regolare nei paesi dell'Unione. Oggi è molto difficile avere il visto. La maggior parte dei cristiani escono seguendo vie irregolari – attraverso la Turchia e la Grecia – senza documenti ed esposti a gravi pericoli. Inoltre devono sborsare oltre 12 mila euro, una cifra esorbitante se si tiene conto anche del deprezzamento della lira siriana dall'inizio del conflitto. Le persone devono vendere tutto ciò che hanno – se lo hanno -: casa, auto, ogni cosa per avere la speranza di rifugiarsi da qualche parte. Se l'Europa vuole tenere fede alle sue radici cristiane e accogliere i cristiani, deve predisporre un canale privilegiato per loro. Questo non significa escludere i musulmani che tra l'altro, in questo momento, godono di un maggiore accesso ai visti da parte delle ambasciate di vari paesi. E sono musulmani anche coloro che comprano le nostre case. Cosa resterà della nostra presenza?

Tra tanta distruzione, l'orchestra e il coro che dirige cosa rappresentano?

Janji: La musica dà speranza. Dal 2010 facciamo concerti di musica classica – del periodo barocco, Mozart, Vivaldi, Pergolesi – sotto il titolo "Voci per la pace". Il coro e l'orchestra "Naregatsi", cioè il santo Gregorio di Narek, proprio quello che papa Francesco ha deciso di far diventare dottore della Chiesa, è stato fondato nel 1983 da un mio insegnante del conservatorio, del quale ho raccolto l'eredità. Prima c'erano 30 persone nel coro, con 4 voci; adesso sono più di 50. Agli ultimi due concerti abbiamo avuto settecento e quattrocento persone: in pratica tutti quelli che sono rimasti ad Aleppo sono venuti. Noi possiamo "suonare" una speranza. La situazione è terribile ma ci sono ancora persone che riescono a vivere una gioia, perchè questa è la mia terra e io non voglio uscire dalla terra dei miei genitori, della mia famiglia.

Lei è a Roma anche per partecipare alla celebrazione che il 12 aprile papa Francesco presiederà con i fedeli armeni in occasione delle celebrazioni per il centenario dell'inizio del genocidio, nel 1915: cosa significa per voi questo anniversario nella situazione che state vivendo?

Janji: E' la storia che si avvolge e torna su se stessa. Cento anni fa i nostri nonni trovarono rifugio in Siria perchè costretti a fuggire dal territorio dell'impero ottomano e dall'attuale Armenia. Oggi i siriani si rifugiano in Armenia. E' qualcosa che interpella la fede e la capacità di convivenza tra cristiani e musulmani. La Siria è sempre stata un esempio di coesistenza e dialogo tra le diverse fedi e anche un paese che si è aperto generosamente all'accoglienza degli armeni durante il genocidio, dal nord del Paese fino ai confini del Libano. Il genocidio è una memoria importante per noi e vogliamo che anche il resto del mondo lo riconosca perchè più di un milione e mezzo di persone sono state uccise.

Il suo vescovo, mons. Butros Marayati, ha affermato di recente in un'audizione al Comitato permanente dei diritti umani, istituito presso la Commissione esteri della Camera dei deputati italiana, che mentre un tempo si invitavano i cristiani a rimanere, oggi è più difficile farlo perchè è in gioco la vita stessa delle persone. Quale sarà il destino della comunità cristiana?

Janji: Tutti i vescovi delle chiese orientali e anche papa Francesco affermano che i cristiani devono rimanere in Medio Oriente perchè è il loro Paese e non potrebbe essere quello che è senza di loro. Adesso però è in gioco la sopravvivenza stessa, a causa dei bombardamenti e della mancanza di cibo, medicine, elettricità, acqua. La cattedrale dove sono io è stata già bombardata quattro volte. Pure Gesù è fuggito in Egitto al tempo della persecuzione di Erode per poter sopravvivere anche se non si è sottratto alla Passione. Come prete invito la gente a pregare perchè lo Spirito infonda la saggezza necessaria per scegliere se rimanere o andare via, ma la decisione sulla propria vita è affidata alla responsabilità di ciascuno. Per quanto riguarda me, finchè ci sarà un cristiano armeno cattolico ad Aleppo, io rimarrò.

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