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Raperonzolo e gli altri: storie di bimbi violati

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La Croce - Quotidiano - pubblicato il 14/03/15
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Nelle fiabe vengono narrati gli orrori di cui l’uomo è capace per esorcizzarlidi Silvana De Mari

Le fiabe nascono da sole, nessuno sa dove, corali e anonime; si evolvono a pezzi e a bocconi, viaggiano attraverso i secoli e attraverso i luoghi, subendo tutte le modifiche possibili, ma restando sempre uguali a se stesse. Le fiabe hanno protagonisti fantastici e magici e non devono superare lo spazio di un pomeriggio passato accanto al fuoco e, soprattutto, quello di una sera, perché il loro compito principale è riempire il “prima di andare a letto”, così che il bambino possa scivolare nel sonno cullato dalla voce dell'adulto, senza che i mostri che vivono dentro al buio possano disturbarlo.

I mostri sono la paura di non essere amati, il rancore per non essere amati, la gelosia perché altri sono o ci sembrano amati di più di noi. Le fiabe sono il luogo dove teniamo i mostri. Come intuisce Kafka, le fiabe sono le scatole d'oro e d'argento dove teniamo i mostri, quando i mostri sono inconfessabili.

Le emozioni negative non sempre sono permesse ai bambini, soprattutto a quelli che più avrebbero ragione di averne: quindi è opportuno nasconderle dentro una fiaba provarle per interposta persona, identificandosi con il personaggio principale.

Nella onnipresente figura dell'orfano, personaggio chiave di tutta la narrativa per l'infanzia, c'è ovviamente la paura di diventarlo, ma, soprattutto, è nascosta l'eterna paura di non essere abbastanza amati. La matrigna da un lato è la rappresentazione di una realtà storica precisa, di un pericolo reale in altre epoche costantemente in agguato: quello di restare orfani di una madre uccisa dal parto, in balia di una matrigna che avrebbe diviso in maniera disuguale tra i figli di primo e secondo letto il poco cibo, le molte botte e le infinite ore di lavoro massacrante. Dall'altro lato la matrigna è, soprattutto, il fantasma universalmente fruibile di una mamma che ama poco o meno di quanto vorremmo.

Dentro fratellastri e sorellastre c'è il timore costantemente presente, anche nei figli di famiglie realmente amorevoli, che i fratelli (sorelle) siano più amati di noi. Dentro la strega e l'orco ci sono madre e padre quando sono irati e urlanti: con i lineamenti stravolti, infinitamente più grandi del bambino, su cui incombono, onnipotenti, terrificanti. Le fiabe, come ogni cosa si rivolga anche all'inconscio, non evitano la contraddizione. L'essere orfani oltre che il terrore è anche il sogno dell'infanzia.

L'uccisione (possibilmente rituale, non a badilate) dei genitori è la fase necessaria alla conquista dell'indipendenza. Difficile affrontare i draghi inseguito da mamma che ci chiede se la maglia di lana ce la siamo cambiata.

In un certo senso dentro il drago, eternamente a guardia di qualche cosa di prezioso dentro a caverne impenetrabili o castelli semidiroccati, c'è anche l'autorità genitoriale, che è necessario infrangere per diventare adulti e liberi.

 

Le fiabe, narrazione fantastica senza alcuna pretesa di verosimiglianza, sono, in assoluto, in quanto opera nata dal basso, lo specchio più fedele di un'epoca. Nelle fiabe è contenuta la persecuzione dei bambini. Nelle fiabe è da sempre uno dei protagonisti, insieme alla fame, alla paura, all'infanticidio, all'idea che i bimbi possano essere scacciati, allontanati, venduti, scambiati, abbandonati in un bosco buio dove un orco orrendo li mangerà per cena, a meno che una fila di sassolini che brillano sotto la luna li riporti a una casa dove nessuno li vuole.

Nella fiaba osano comparire l'abuso sessuale, la pedofilia e l'incesto (Pelle d'Asino), la psicosi criminale e l'uxoricidio (Barbablù). Quando passavano la guerra, i lanzichenecchi, la siccità e le cavallette, quando non c'erano più raccolti, poteva succedere che i bambini venissero abbandonati nei boschi, uccisi (Biancaneve) massacrati di lavoro e discriminati rispetto ai fratelli (Cenerentola) oppure venduti in cambio di cibo (Raperonzolo) mentre sono ancora nel grembo della madre (come ancora oggi succede nell'orrenda pratica dell'utero in affitto).

Nella fiaba originale la regina incinta ha una voglia di raperonzoli, di proprietà di una strega, che il marito va a rubare per lei. La strega lo scopre e il re, per poter essere lasciato libero, promette la vita che la regina porta nel grembo. Al re tutta la mia disistima. Un uomo perbene muore lui, di fame, di fatica, non vende il ventre della sua donna. Mio padre sarebbe morto lui, non mi avrebbe mai consegnato. Compito degli uomini è morire per le loro donne e i loro figli. Leviamo l'oro e l'argento e quello che resta è una bimba venduta con la complicità dell'uomo che doveva proteggerla.

I bambini sono stati venduti, per cibo, a coppie sterili, dove a volte c'era una necessità di un figlio per motivi ereditari, oppure a fabbriche di tappeti o mattoni, o alle miniere, bambini di quattro anni scendevano in miniera. Ora la barbarie, scomparsa per qualche secolo, è tornata, infinitamente più oscena. La madre adottiva, la proprietaria di Raperonzolo, quella che l'ha comprata e pagata, ne diventa la carceriera: il figlio acquistato, su apposite agenzie che pubblicizzano “bimbo in braccio”, equivalente “di chiavi in mano”, è stato acquistato e pagato e difficilmente gli sarà data la libertà di essere come vuole essere.

Gli è stata negata persino la libertà elementare di essere figlio di una madre, la sua. I rapporti tra madre e figlio, o meglio tra proprietaria dell'utero e feto (non vorrei essere accusata di terrorismo psicologico), sono enormi: la madre è stata spaventata o triste durante la gravidanza? Tutto questo ci sarà nel carattere del bambino. I rischi che una donna corre durante la gravidanza sono enormi, possono restare per sempre cicatrici, come le smagliature e i piedi più larghi, per il maggio peso e la lassità di tessuti connettivi, fistole vaginali o rettali, o patologie gravi come diabete, insufficienza renale. Una donna può morire. Una donna soffre: il parto naturale è sofferenza, il parto cesareo è sofferenza, il post parto è sofferenza, una sofferenza felice e ben venuta quando ad essere partorito è il primo bambino, concepito con l'uomo amato, una sofferenza atroce negli altri casi.

L'affitto dell'utero è la nuova forma di sfruttamento del corpo, di schiavismo, di oppressione, di violazione della dignità. Gli acquirenti del bimbo dichiarano di amarlo, e che l'amore risolve tutto. L'uso insistente della parola amore, questa affettività vomitata in continuazione, sbandierata a ogni istante, è la stimmate dell'isterismo, il segno di un sentimentalismo vuoto: far nascere un bambino orfano di madre, dopo aver ridotto la sua gravidanza a un affitto di utero, non è un gesto d'amore. Il bambino impara a riconoscere la voce della madre al quinto mese della vita intrauterina, per tutta la vita fabbricherà ossitocina sentendo quella voce. Il legame madre figlio è un legame sacro. Chi lo interrompe intenzionalmente commette un crimine.  

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