Le parole di Francesco durante l’incontro con Comunione e Liberazione
Il 7 marzo 2015 Papa Francesco ha incontrato il movimento di Comunione e Liberazione, nel sessantesimo anniversario della sua fondazione e a dieci anni dalla scomparsa del fondatore, monsignor Luigi Giussani. L’incontro è stato occasione per testimoniare la profonda e personale riconoscenza del Pontefice a Giussani e al suo insegnamento, prezioso per tutta la Chiesa, e per riflettere sulla natura e la missione dei movimenti, che non devono mai ridursi a «museo» dei fondatori, per quanto grandi, ma dal loro insegnamenti devono trarre la forza per «uscire» ed evangelizzare gli uomini e le donne di oggi.
Il «primo pensiero» del Papa è stato proprio per Giussani. «Sono riconoscente a Don Giussani», ha detto papa Francesco, «per varie ragioni. La prima, più personale, è il bene che quest’uomo ha fatto a me e alla mia vita sacerdotale, attraverso la lettura dei suoi libri e dei suoi articoli. L’altra ragione è che il suo pensiero è profondamente umano e giunge fino al più intimo dell’anelito dell’uomo». Il Pontefice ha ricordato il cuore dell’insegnamento di Giussani: «l’esperienza dell’incontro: incontro non con un’idea, ma con una Persona, con Gesù Cristo. Così lui ha educato alla libertà, guidando all’incontro con Cristo, perché Cristo ci dà la vera libertà». E ha messo in relazione questa idea centrale di Giussani con un quadro, «La vocazione di Matteo», «quel Caravaggio», ha detto, «davanti al quale mi fermavo a lungo in San Luigi dei Francesi, ogni volta che venivo a Roma», dove Gesù va a prendere un peccatore, un pubblicano come Matteo e lo chiama a seguirlo e a diventare santo. «Nessuno di quelli che stavano lì, compreso Matteo avido di denaro, poteva credere al messaggio di quel dito che lo indicava, al messaggio di quegli occhi che lo guardavano con misericordia e lo sceglievano per la sequela. Sentiva quello stupore dell’incontro. È così l’incontro con Cristo che viene e ci invita».
«Tutto, nella nostra vita», ha proseguito il Papa, «oggi come al tempo di Gesù, incomincia con unincontro». Al primo incontro con Gesù narrato nel Vangelo di Giovanni, i discepoli «si sentirono guardati fin nel profondo, conosciuti intimamente, e questo generò in loro una sorpresa, uno stupore che, immediatamente, li fece sentire legati a Lui…». O ancora quando, dopo la Risurrezione, Gesù chiede a Pietro: «Mi ami?», e Pietro risponde: «Sì», «quel sì non era l’esito di una forza di volontà, non veniva solo dalla decisione dell’uomo Simone: veniva prima ancora dalla Grazia, era quel “primerear”, quel precedere della Grazia. Questa fu la scoperta decisiva per san Paolo, per sant’Agostino, e tanti altri santi: Gesù Cristo sempre è primo, ci primerea, ci aspetta, Gesù Cristo ci precede sempre; e quando noi arriviamo, Lui stava già aspettando». Gesù, ha detto Francesco usando un’immagine poetica, «è come il fiore del mandorlo: è quello che fiorisce per primo, e annuncia la primavera».
Ma la «dinamica dell’incontro», ha affermato Francesco, va capita bene. Non si può capire senza la misericordia. «Solo chi è stato accarezzato dalla tenerezza della misericordia, conosce veramente il Signore. Il luogo privilegiato dell’incontro è la carezza della misericordia di Gesù Cristo verso il mio peccato». Forse vi sarete stupiti, ha detto il Papa, se «alcune volte voi mi avete sentito dire che il posto, il luogo privilegiato dell’incontro con Gesù Cristo è il mio peccato». Naturalmente non è il peccato in sé che favorisce l’incontro, ma la consapevolezza che abbiamo peccato, «la voglia di rispondere e di cambiare». Da questa voglia di reagire «può scaturire una vita diversa». «La morale cristiana, infatti, non è lo sforzo titanico, volontaristico, di chi decide di essere coerente e ci riesce, una sorta di sfida solitaria di fronte al mondo. No. Questa non è la morale cristiana, è un’altra cosa. La morale cristiana è risposta, è la risposta commossa di fronte a una misericordia sorprendente, imprevedibile, addirittura “ingiusta” secondo i criteri umani, di Uno che mi conosce, conosce i miei tradimenti e mi vuole bene lo stesso, mi stima, mi abbraccia, mi chiama di nuovo, spera in me, attende da me». La morale cristiana «non è non cadere mai, ma alzarsi sempre, grazie alla sua mano che ci prende». E la Chiesa esiste per essere strumento di questa mano del Signore. «Anche la Chiesa deve sentire l’impulso gioioso di diventare fiore di mandorlo, cioè primavera come Gesù, per tutta l’umanità».
Francesco ha ricordato, a proposito dei sessant’anni di Cl, le parole che Benedetto XVI nel 2007 rivolse al movimento, che definì «nato nella Chiesa non da una volontà organizzativa della gerarchia, ma originato da un incontro rinnovato con Cristo e così, possiamo dire, da un impulso derivante ultimamente dallo Spirito Santo». «Dopo sessant’anni», ha commentato il Papa, «il carisma originario non ha perso la sua freschezza e vitalità». Però, come tutti i movimenti, anche Cl è invitata a ricordare che «il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù, Gesù Cristo! Quando metto al centro il mio metodo spirituale, il mio cammino spirituale, il mio modo di attuarlo, io esco di strada. Tutta la spiritualità, tutti i carismi nella Chiesa devono essere “decentrati”: al centro c’è solo il Signore!». Inoltre, «il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata! Fedeltà al carisma non vuol dire “pietrificarlo” – è il diavolo quello che “pietrifica”, non dimenticare! Fedeltà al carisma non vuol dire scriverlo su una pergamena e metterlo in un quadro». È giusto ricordare Giussani, ma questo «non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. Comporta certamente fedeltà alla tradizione, ma fedeltà alla tradizione – diceva Mahler – “significa tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri”. Don Giussani non vi perdonerebbe mai che perdeste la libertà e vi trasformaste in guide da museo o adoratori di ceneri. Tenete vivo il fuoco della memoria di quel primo incontro e siate liberi!».
Lo scopo di un movimento non è solo custodire una memoria. È muoversi, «uscire», evangelizzare. «Uscire», parola cara a Papa Francesco, «significa anche respingere l’autoreferenzialità, in tutte le sue forme, significa saper ascoltare chi non è come noi, imparando da tutti, con umiltà sincera. Quando siamo schiavi dell’autoreferenzialità finiamo per coltivare una “spiritualità di etichetta”: “Io sono Cl”. Questa è l’etichetta. E poi cadiamo nelle mille trappole che ci offre il compiacimento autoreferenziale, quel guardarci allo specchio che ci porta a disorientarci e a trasformarci in meri impresari di una ong». Il Papa ha concluso con «due citazioni molto significative di don Giussani, una degli inizi e una della fine della sua vita». La prima, del 1967: «Il cristianesimo non si realizza mai nella storia come fissità di posizioni da difendere, che si rapportino al nuovo come pura antitesi; il cristianesimo è principio di redenzione, che assume il nuovo, salvandolo». La seconda, del 2004: «Non solo non ho mai inteso “fondare” niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta».