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Whiplash: una lezione appassionante su come tirar fuori il genio creativo

Whiplash – movie

© Daniel McFadden/Blumhouse Productions/Bold Films/Exile Entertainment/Right of Way Films

José Antonio Planes - pubblicato il 06/03/15

L'umiliazione è positiva per suscitare nell'allievo il desiderio di migliorare?

In una fase avanzata del film, Terence Fletcher, il temibile professore del conservatorio Shaffner di New York che ha portato sulla strada dell’amarezza il giovane Andrew Newman, gli racconta di come Jo Jones abbia tirato un piattino al mitico Charlie Parker quando, quando questi aveva solo 16 anni, iniziò a suonare fuori ritmo in un concerto con l’orchestra di Count Basie. Il lancio suscitò le risate degli spettatori, ma la cosa certa è che l’aveva quasi decapitato.



Pur se doloroso e umiliante, quell’episodio fece reagire l’allora promettente sassofonista. La mattina dopo iniziò a esercitarsi con impegno per evitare che la gente ridesse nuovamente di lui. Molti credono che senza quell’episodio Parker non avrebbe compiuto i passi necessari per diventare il gigante della musica in cui si è poi trasformato.

Incidente riprovevole o lezione efficace? Probabilmente, trasferendo i fatti al presente e senza l’aura mitica dei nomi citati, non esiteremmo a respingere una reazione così violenta per quanto le intenzioni – e anche gli effetti – potessero essere positive.

Fletcher, però, ha le sue ragioni: sa che con metodi così estremi non si è fatto degli amici al conservatorio, ma è sempre partito dalla convinzione che un autentico genio non si scoraggia, ma al contrario usa le umiliazioni come mezzo per far emergere tutto il suo talento.

“Non ci sono due parole più dannose nel linguaggio di ‘buon lavoro’”, segnala Fletcher per opporsi pienamente alle pedagogie benevole e compiacenti. Sprecare una materia prima promettente e non spingerla verso l’apice è a suo avviso una tragedia assoluta.

Evidentemente, ci troviamo di fronte a un discorso conflittivo, radicale e controverso con il quale rivaleggerebbero nettamente altri che hanno transitato sullo schermo. Alla fin fine, l’ossessione che rasenta la pazzia di esprimere il virtuosismo e la creatività comporta contropartite tremende. Si veda il tragico itinerario dei musicisti protagonisti di Shine (Scott Hicks, 1996) o La pianista (Michael Haneke, 2001).

L’aspetto encomiabile di Whiplash risede nella convinzione e nella credibilità con cui ritrae un’impostazione a cui è difficile cedere per le nostre coscienze costruite sul politicamente corretto, visto che in poco più di 100 minuti di durata finiremo per essere testimoni del fatto che, forse solo a volte, la dinamica pedagogica di Fletcher dà i suoi frutti.

Il film, come il lettore avrà già indovinato, riguarda un batterista alle prime armi, Andrew, e il tira e molla che si stabilisce con Fletcher, che dopo averlo visto suonare gli offre un’opportunità come batterista supplente nella banda migliore del conservatorio.

Grazie a uno splendido copione in cui tutte le scene contribuiscono a generare un crescendo senza pari, le vicissitudini del personaggio principale sono piene di scarti e virate inattesi, per cui per lo spettatore è impossibile predire la rotta della storia, e da questo deriva l’aspettativa suscitata.

La sceneggiatura riguarda anche un paio di questioni collaterali che non dovremmo eludere: il rapporto di Andrew con Nicole, che finisce per abbandonare perché la sua “mediocrità” non lo svii dalle sue alte aspirazioni musicali, e soprattutto le frequenti apparizioni di suo padre, sempre pronto a offrirgli affetto, comprensione e stabilità nei momenti più duri.

Le apparizioni paterne potrebbero risultare a priori poco significative, semplici momenti di riposo dall’azione, ma se riprendiamo le premesse del discorso di Fletcher sulla motivazione e in particolare se teniamo conto del gesto di separazione visiva che si produce tra genitore e figlio al momento del concerto finale, scopriremo che una delle strategie del film ha consistito nel metterlo in evidenza in modo sistematico, perché seguendo gli insegnamenti radicali del suo maestro, dalle immagini si deduce che Andrew deve scegliere tra un cammino di sacrificio e abnegazione personale per arrivare al vertice e l’accontentarsi di quelle fughe al cinema insieme al padre in cui si godono pop corn e mirtilli ricoperti di cioccolato, scena che nel film appare più di una volta. O, il che è lo stesso, perdersi nell’universo dei falliti.

Se è lodevole il modo in cui la sceneggiatura gestisce gli enunciati drammatici e presenta la costruzione di un ritmo narrativo in accelerazione permanente, è giusto lodare anche il lavoro di messa in scena, nel quale, in varie parti, la composizione e la durata dei piani camminano mano nella mano – senza affrettarsi né attardarsi, come direbbe Fletcher – con gli interludi jazz che irrompono in scena, generando un vertiginoso passaggio di velocità.

Lavoro brillante ed efficace, sicuramente, forse il più evidente di quelli che meritano di essere menzionati, perché, lasciando da parte questa laboriosa operazione di montaggio, può passare inosservato l’uso delle diverse virate cromatiche che avvolgono le peripezie di Andrew al conservatorio, dando loro un tono onirico e quasi surreale, come fughe da un incubo, accentuando, se fosse necessario, la sua solitudine e la sua ossessione in un edificio fantasmagorico.

È indubbio che il debuttante Damien Chazelle ha preso nota del magistero visivo di alcuni dei registi indipendenti più in voga del momento, come Darren Aronofsky – se scusiamo la sua sfortunata incursione nella superproduzione con Noè (2014) –, Nicolas Winding Refn e Denis Villeneuve.

Come in alcune pellicole di questi cineasti, anche in questo caso ci imbattiamo in un’autentica discesa agli inferi, con la particolarità che in questa occasione solo attraverso questo destino si può raggiungere ciò che è più vicino alla gloria eterna.

Film quindi carico di “dinamite”, è molto probabile che sollevi, almeno sul terreno delle idee, tante adesioni quante suscettibilità, ma come ha suggerito George Steiner in Linguaggio e silenzi (1967) la vera opera d’arte non fa altro che ampliare e complicare la mappa della nostra sensibilità. E Whiplash, a modo suo, ci riesce.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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