Con ogni aborto, ci perdiamo tuttiSono nata nel 1974. Sono nata. Anche tu. Anche tu. E tu.
Chiunque si metta a discutere ora di aborto o anche di economia domestica o di teorie geopolitiche o di tecniche di decoupage o di pizza può predicare di se stesso che, appunto, è. Esiste.
Perché è nato.
Ed è nato perché è stato concepito. Ed è stato concepito perché un uomo e una donna hanno avuto un amplesso. E poi è stato gestato per 280 giorni circa. E infine partorito. E cresciuto. E in un certo senso anche ora è mantenuto nell’essere. Perché ora, in questo preciso istante, nessuno di noi può fare nulla per decidere delle proprie cellule, della loro esistenza e sviluppo.
Certo possiamo incidere sul nostro organismo, eccome!
Ma si tratta pur sempre di interventi di manutenzione su un gioiello della meccanica del quale io per esempio capisco poco. O della trista possibilità di distruggerlo a mazzate. Di decidere se trattarlo bene, favorirlo oppure mortificarlo con la nostra sciatteria o addirittura accanendoci contro di esso.
Tanti medici mi hanno detto, in questi due anni di indagini e cure per le vicende che alcuni forse ricordano, così dilatati da sembrare sei, che la medicina è una scienza approssimativa. E quanto più uno è bravo, tanto più riconosce l’enormità della materia che ha di fronte.
Una mente eccelsa del secolo scorso che io leggo con grande passione, gratitudine e una certa fatica è Karol Wojtyla.
Nel 1960 l’allora cardinale arcivescovo di Cracovia dà alle stampe un’opera che sviluppa come riflessione puramente, squisitamente razionale. Si muove secondo l’ampiezza della ragione umana senza mai prendere le mosse dagli insegnamenti biblici. E così finisce per delineare le stesse conclusioni che la rivelazione ci ha donato. Ma questo è per chi crede. E possiamo, anzi dobbiamo prescinderne, in questa sede.
È un’opera metafisica. Si muove su pochi chiarissimi principi.
L’indagine riguarda qualcosa di impalpabile e astratto?
No. Si occupa della corporeità sessuata, dell’amore erotico, della procreazione, della morale sessuale.
Da eterna dilettante della filosofia quale sono un passaggio più di altri mi ha conquistata.
A pagina 37 di Amore e responsabilità (ed Marietti), dopo avere definito l’impulso sessuale nell’uomo, distinguendolo dall’istinto sessuale degli animali, vi attribuisce un ruolo di cardine dell’intero battente che è la specie umana, fissata allo stipite della storia.
Senza di esso cadrebbe e con un grande fracasso.
«Il genere umano può essere conservato nella sua esistenza solo a condizione che le coppie umane (lui non lo dice ma a noi tocca, coppie di uomo e donna) seguano l’impulso sessuale».
Questo significa che ciò che è determinato, mosso da una forte tendenza – l’impulso sessuale appunto – insiste sull’attributo più importante, l’esistenza della specie.
La frase, anzi il paragrafo in questione è il seguente: «La specie homo fa parte della natura e la tendenza sessuale agendo in questa specie ne assicura l’esistenza. Ora l’esistenza è il bene primo e fondamentale di ogni essere. Tutti gli altri beni ne derivano. Io posso agire solo nella misura in cui esisto» (e qui finalmente ho letto scritta a chiare lettere la bordata che da anni rimugino tra me e me al Cogito ergo sum di Cartesio. Sum ergo cogito. Solo così si può dire. L’altra non vale. Non sta in piedi. Al massimo posso concedergli una versione femminile: Escogito. Ergo sum. Oppure si può completare così: «Esisto quindi penso ed è oggetto del mio pensiero il sapere che esisto… Ed esistevo e ne avevo forse una coscienza inesprimibile anche nella vita prenatale».
Ma non voglio banalizzare, solo per far tornare una frase. Cartesio, nel procedere delle sue lucidissime Meditazioni Metafisiche approda in realtà alla medesima constatazione: «Di me l’unica cosa che nemmeno un genio maligno può impedirmi di affermare è che io esisto».
E prosegue, K. Woityla con il chiaro corollario di questo assioma. «Le diverse opere dell’uomo, i prodotti del suo genio, i frutti della sua santità, sono possibili solo nella misura in cui l’uomo, il genio, il santo, esistono» (ibidem).
E l’esistenza è il bene primo e fondamentale di ogni essere umano, anche di quello femminile che intende fermamente, del tutto autodeterminarsi (perché nella storia la donna, le donne reali hanno sofferto molto e soffrono ancora per vecchie e nuove schiavitù). Ma non si ricorda che non può, non potrà mai. Mai più totalmente, in senso radicale. Nessuna di noi donne può davvero autodeterminarsi.
Perché è già nata.
Dovevamo pensarci prima, prima di nascere era il momento per autodeterminarsi veramente.
Come voglio nascere? Come desidero essere? Avrò davvero un utero che poi griderò a tutti essere mio e soltanto mio?
Spingo al paradosso perché così cadono più in fretta certi veli e si vede di più la verità. (Quella che cerchiamo, alla quale tendiamo e che, incontrandola, indefettibilmente riconosciamo. Quindi lo dico nella massima umiltà e nell’evidente modestia dei miei mezzi).
Anche le bambine abortite a 12 settimane in Italia o a molte più settimane altrove hanno un utero. Lo avrebbero avuto. E magari avrebbero voluto decidere per sé.
Perché è giusto che ogni persona possa decidere per sé. Che possa agire liberamente, entro i limiti che tutti abbiamo; e ricordiamoci che la realtà è ostinata. È un ottimo promemoria del nostro limite. Benevola, spesso. Terribile se ci ostiniamo a negarla.
Tutti abbiamo l’insopprimibile desiderio di vivere liberi; magari anche trascinando sciattamente la nostra propria esistenza per i 3/4 degli anni che ci saranno concessi. Magari uccidendo un’altra persona. Magari mettendone al mondo altre insieme ad un uomo, o a una donna a seconda di come siamo nati.
Ma ogni persona innanzitutto è esistente. (Quindi esiste in modo visibile ed espressivo di sé. Perché anche solo il concepito esiste. E per sempre.) E tutto il resto si fa solo dal momento in cui si è già nati. Si è lasciati nascere. Io sono stata lasciata nascere. Anche tu che leggi e approvi oppure senti una distanza o addirittura grande irritazione per queste parole. Tu e io siamo nati.
È talmente importante ed incisivo il momento della nascita, e della gestazione, per noi che nessuno ha parole, o quasi, per dirlo. Ma è nella nostra memoria in modo potentissimo. Si chiama memoria implicita, scopro. Sei nato perché è così. Perché sei stato strappato al niente. È una forma passiva.
E questo, mi spiace, ma presume un soggetto che agisca. Anche se non lo nominiamo. Io da sola non mi sono tolta nulla. Tu da solo non ti sei dato né ti dai l’esistenza. Mi ricordo Enzo Piccinini – medico e laico cattolico impegnato con una passione travolgente nell’annunciare opportune et importune che Cristo è risorto – che ci ricordava questa condizione universale in un modo così struggente, sanguigno. Solo lui sapeva dirlo con gli occhi che quasi uscivano dalle orbite per lo stupore e il vigore che questa scoperta gli suscitava.
Mi sono riletta la 194. Tutti gli articoli. A schermo; quindi è stato un po’ arduo, mi distraggo di più.
Per non perdere il filo metto sempre nomi e facce ai soggetti indicati. Funziona.
Il primo articolo, mi perdonino l’approccio pscicopatologico, è schizofrenico. Come può lo Stato tutelare la vita fin dal suo inizio e un paragrafo immediatamente sotto regolamentare l’interruzione della stessa vita umana appena iniziata?
Articolo 1
Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio.
L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Cosa significa? Che tutelerebbe la vita umana fin dal suo inizio se davvero potesse farlo? È una dichiarazione di impotenza?
Che quando interrompi una gravidanza, prima fase per la vita di chiunque, non stai impedendo la nascita di qualcuno? Non stai in qualche modo intervenendo sul numero delle nascite?
(Il controllo, semmai, si esercita sui concepimenti… No, non il controllo. Ma la partecipazione intelligente, la possibilità di sapere che stai partecipando al concepimento di qualcuno. E che puoi decidere. La conoscenza di questo aspetto della nostra corporeità sessuata è una meraviglia così poco conosciuta ancora. È gratis , libera, valorizza l’eros. Sì insomma si apre un’altra voragine. Non è il caso. In sintesi: il sesso è un aspetto bellissimo. In sé porta la possibilità di procreare. Noi siamo gli unici animali a saperlo. Solo noi sappiamo che se facciamo l’amore possiamo concepire un figlio. Ed è per questo che Cupido è un putto con le ali. È un bambino! Lo sappiamo. E ne abbiamo così paura?)
Non sui concepiti. Infatti l’articolo 1 sembra fare un appello: non intervenite dopo, se non in casi estremi.
Non suonerebbe meglio: “Lo Stato è riconoscente alle famiglie che garantiscono una procreazione”; “lo Stato si impegna a tutelare e difendere la maternità e il suo incommensurabile valore. Lo Stato è grato a tutte le famiglie che educando uomini generano anche effetti positivi a livello civile, sociale ed economico. La vita umana è un bene per sé gli altri beni ne discendono”?
Va bene. Sto partendo per la tangente. Non è il modo giusto. Non si tratta così una legge dello Stato. Non sono titolata a farlo.
E poi soprattutto c’è stata una stagione di lotta, c’è di mezzo una mentalità, un costume diffuso.
Ma prima di tutto ci siamo noi. Tutti noi. Noi già nati. Noi lasciati nascere; che scriviamo, che pensiamo. Che ci battiamo. Noi donne, ad esempio, che godiamo di tanti benefici per i quali è indubbio dobbiamo essere riconoscenti anche agli aspetti buoni del femminismo.
Tocca a noi ora, senza paura. E la prima cosa da fare è stare ferme. Davanti allo specchio o solo a guardarci le mani appoggiate sulle gambe, a sentire e guardarci il corpo. Noi ci siamo. Siamo nate e stiamo tuttora vivendo; e non c’è soluzione di continuità con quel periodo di vita seminascosta, evidente e protetta dentro il ventre di un’altra donna. Siamo germinate in quell’utero perché lo sperma di un uomo è entrato e ha trovato lì un ambiente favorevole e il suo reciproco femminile, l’ovulo.
(E lì, in quell’utero, eravamo libere. Dipendenti all’ennesima potenza eppure libere..)
Che valore ha la mia di vita? O almeno che sentimento suscita in me? Che domande fa esplodere? Ora che sono già cresciuta.
Se solo ci facessimo davvero queste domande sarebbe più facile poi per amorosa o anche solo logica analogia estendere lo stesso statuto di essere umano vivente alle altre. Alle bambine che devono nascere. Ai bambini che devono nascere. Alle femmine e ai maschi.
Perché è vero. È spaventoso; fa sobbalzare il cuore pensare che quella mia amica ha deciso a pochi metri dalla sala operatoria di rifiutare la procedura di IVG già fissata e ora suo figlio è alto un metro e ottanta e ha già quel vocione. Poteva non esserci e questa eventualità mi fa tremare i polsi. Perché un’altra persona, una volta che la conosco, mi sembra irrinunciabile.
E lo stesso vale per il medico che pratica gli aborti e per quello che invece esercita l’obiezione di coscienza. Perché in quanto essere umano ha una coscienza; glie la riconosco. La riconosco a lui e al restante 89% di medici che ne usufruisce.
Le indagini prenatali insieme alla possibilità di individuare malformazioni e anomalie della persona nascitura ci mostrano sempre più a livello popolare, diffuso ed empirico che quello che vediamo non è un grumo di cellule. È un insieme organico, organizzato in un senso che mi fa dire: «Al mio bambino batte già il cuore».
Le ecografie ci fanno rendere conto che l’aborto è un atto orribile e ci dispiace che sia anche solo una extrema ratio.
Come possiamo recuperare in fretta in fretta la ratio precedente? Come possiamo intervenire in tempo?
Forse intervenendo su chi ci è vicino? Prima su noi stessi.
Se noi adulti, inseriti nella società, non facciamo di nuovo risuonare in noi lo spavento dell’esserci, l’inspiegabilità di trovarci vivi senza uno scopo specifico che non sia l’esserci, allora ci attesteremo sempre più su concetti di mera produttività, di capacità di rendere.
E si ragionerà (si ragiona già…) intorno alla qualità della vita. A mettere delle scale, a suddividerla in strati, assegnarle diversi livelli; a fissare un minimo accettabile sotto il quale nessuno po’ permettersi di scendere. O di nascere.
Ma la vita come tale ha innanzitutto la qualità di esserci. Un altro tratto suo distintivo è che procede per gradi. Inizia piccola e poi cresce. E poi decresce e infine muore.
Lo so, non posso dare nessun contributo risolutivo alla complessità di un problema che riguarda tantissime persone e in modo così drammatico a volte.
Pare anche che il fenomeno dell’obiezione di coscienza dei medici registri una certa fluidità e non sia proprio così svincolato da calcoli pragmatici che invece dovrebbero essere al di fuori delle questioni di coscienza. Questo costringe in alcune strutture chi non fa obiezione a praticare continui interventi di aborto su donne soprattutto straniere che arrivano alle strutture a ridosso dei termini legali e hanno fretta e disperazione. Altre no, altre lo fanno per motivi più futili. E questo mette ancora più tristezza. Come rattrista di più una ricca signora che ruba perché si annoia di una in gravi ristrettezze che ruba per mangiare. È più desolante la prima. Ha un’umanità più immiserita.
Ma questo è un altro discorso.
Si torna sempre lì. Difendiamo le persone coinvolte. In quale ordine?
Il “prodotto del concepimento” va difeso o no?
O crediamo di difendere noi stessi togliendogli, oltre alla vita, anche il nome che gli spetta? Se si chiama prodotto del concepimento lui o lei allora chiamate così anche me. La differenza è che è passato più tempo. E il tempo ha permesso a me e a te di rendere attuale quello che in potenza era già contenuto nelle prime cellule.
Dài, non cerchiamo di rendere asettico quello che non potrà mai esserlo. La vita è una cosa spaventosa, carnale, sanguinolenta. Scura e luminosa.
Per ogni prodotto del concepimento raschiato e buttato via abbiamo una donna che ha abortito, un medico che ha praticato l’aborto (e forse dopo qualche centinaio anche il più impassibile inizia ad inorridire), un padre mancato, magari già fuggito, e una persona in meno. Ci perdiamo tutti.
Vorrei del tutto evitare di assumere la posa e gli atteggiamenti della tifosa confessionale e acritica. Non sono medico, non sono giurista, non sono politica. Sono mamma ma non conta molto, non è il mio argomento forte ora.
Perché credo di potere essere titolata anch’io a parlare di vita e di persone innanzitutto per il semplice fatto che usufruisco anch’io dello stesso statuto di tutte le persone vive e vengo dallo stesso percorso. Concepimento, gestazione, nascita.
Non possiamo credere davvero che solo “gli esperti” possano pronunciarsi sulla vita, il suo inizio e il suo valore.
Perché lasciando che migliaia di aborti avvengano ogni anno in Italia e milioni nel mondo ci priviamo di un’enormità di cose possibili, di vite possibili. Del genio, delle trovate, anche della possibile ricchezza prodotta ad esempio; e delle malefatte, ma anche delle intuizioni di qualcuno che avrebbe potuto nascere.
La 194 voleva salvare la vita delle donne.
Va bene, allora tutte. Valga per tutte le donne. Quelle incinte e quelle gestate. E degli uomini. Quelli già padri e quelli che forse lo diventerebbero. (In Cina ci sono moltissimi uomini rispetto alle donne, circa 40 milioni in più).
Abbiamo bisogno di questa gente. Abbiamo bisogno di nuovi occhi nei quali vederci guardati.
Nessuno può obbligare una donna a partorire, se non la natura stessa delle cose. Che poi, intendiamoci, non è come essere messi in un lager e usati come organismo ospitante per un virus letale. Trattasi di un fenomeno fisiologico, non patologico. Questo è la gravidanza, nei suoi termini più ridotti. Non semplifico. Conosco lo sconvolgimento che la gravidanza genera. Posso solo provare a immaginare cosa provi una donna che resti incinta a causa di una violenza. Puro orrore, la violenza. Non il bambino.
La donna che per ignobile incuria di molti si trova sola, senza mezzi, senza una minima speranza di futuro, e decide di sopprimere la vita che porta lo fa proprio e solo in ragione del fatto che ha ben chiaro che si tratta di una persona; e una persona poi mangia, beve, si veste, si muove, vive, costa.
Allora la risposta non può essere questa disperazione organizzata che sempre più si va delineando in Occidente. Non puoi o non vuoi tenere con te questo bambino futuro? Sei stanco di vivere? Soffri in modo insopportabile? Ti aiuto. A farlo sparire. A sparire tu stesso.
Avete ragione il dolore è brutto.
Ma nascere, già nascere è un misto irrisolvibile di dolore e felicità.
Lo dice bene Testori dialogando con Giussani.
«Se tu vai indietro nel dolore della nascita incontri un atto d’amore» afferma Testori in un colloquio con don Luigi Giussani che è stato poi pubblicato nell’opera Il senso della nascita «perché mio padre e mia madre si sono amati in Dio; in Cristo si sono amati. Bisogna dirlo. Credo che non bisogna aver paura di dirlo: perché sono cose che se si pronunciano nella speranza diventano di per sé sacre. Ecco: c’è un momento di sperdutezza in un uomo e in una donna che si amano; di sperdutezza e di liberazione».
Vivere a volte è così pesante, così insopportabile che puoi pensare, carezzare l’idea di fuggire via. E l’angoscia si nutre anche del sospetto che nemmeno quel gesto basterebbe; perché «guarda che se t’ammazzi non risolvi niente, perché tu resti; non eviti un domani; non puoi evitare il destino; il destino ti supera; e, infatti, non c’eri e sei nato; perciò sei dentro in una cosa più grande di quello che ti fa male, di quello che ti perseguita, che ti inaridisce. E ciò che ti costituisce, il tuo destino, ha una capacità di resurrezione in te purché tu lo voglia, purché tu l’accetti. In questo senso, io, a tutta questa gente dico che la prima cosa da fare è quella che sembrerebbe la più lontana: la preghiera» (L. Giussani, ibidem).
Sì, nasciamo e non moriamo più: siamo come semirette.