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Iraq, le milizie cristiane si oppongono all’ISIS

Attacks in Iraq kill 4 as siege in Anbar continues – it

AP Photo

Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 27/02/15

Viaggio tra i volontari che si oppongono ai jihadisti

Ieri il Corriere della Sera (26 febbraio) ha pubblicato un reportage a firma di Lorenzo Cremonesi, direttamente sul campo di Al Qosh, in Iraq. Tema del prezioso documento sono le milizie cristiane che si stanno organizzando come risposta alla drammatica solitudine in cui l’Occidente e molte altri paesi dell’area hanno lasciato le comunità di locali dei fedeli di Cristo. Noi ne avevamo già parlato qui.

«Porgere l’altra guancia? Un errore. Siamo cristiani, crediamo nella pace, però non vogliamo morire come martiri imbelli. Dagli assassini dello Stato Islamico dobbiamo difenderci con le armi. Non sarà un modo di fare troppo cristiano, è vero. Ma, se vogliamo che le chiese del Medio Oriente continuino a esistere, non ci resta che una strada: combattere».

Crescente la disperazione tra le reclute delle milizie cristane

«Dateci fucili e munizioni. Se nessuno ci difende, lo faremo noi!» 

Così protestavano i profughi in fuga da Mosul e dai villaggi limitrofi della piana di Ninive, culla del cristianesimo mesopotamico. Qui il nemico è chiaro: Isis o Daesh secondo la dizione araba. I miliziani fondamentalisti li hanno derubati di tutto, umiliati, espulsi dalle loro case, cacciati dalle basiliche dissacrate. Sono pochi, male armati e senza addestramento, inquieti per l’essere lasciati soli. Quando arrivò l’ISIS i peshmerga curdi erano fuggiti senza quasi avvisarli; l’esercito di Bagdad si era sciolto come neve al sole.

Che fare?

Si riparte dalle «Unità di protezione della piana di Niniveh». E’ così che la gente di qui ha deciso di reagire ai soprusi, ma i cristiani pronti a combattere inquadrati in milizie indipendenti sono ancora pochi, forse un migliaio. Tra loro sono arrivati assiri dalle comunità della diaspora, specie svedese.

Si aggiungono qualche volontario americano e un paio di canadesi. «Cresciamo. Le violenze degli ultimi giorni contro le comunità assire nel Nordest della Siria sono destinate a generare altri volontari» racconta Athra Mansour Kado, 25enne ufficiale che opera nel loro campo di addestramento principale presso il villaggio di Al Qosh. I recenti fatti della vicina Siria hanno catalizzato simpatia.

«Ci mancano armi pesanti. Ognuno di noi contribuisce con i propri risparmi per l’acquisto del kalashnikov personale e delle munizioni. Possiamo fare molto poco contro gli autoblindo, i mortai e persino i carri armati che Isis ha catturato all’esercito iracheno. Ma non importa, il nostro è un inizio, un segnale di risveglio. Speriamo che l’Europa e gli Stati Uniti ci mandino aiuti» osserva il 47enne Fuad Massud, ex ufficiale delle forze speciali nel vecchio esercito di Saddam Hussein. 

Il problema – come se fossero pochi – è la differenza di vedute sul lungo periodo tra gli iracheni cristiani ei curdi. I primi sognano un Iraq unito, centralizzato, non diviso. I secondi assaporano l’idea di prendersi quello che non fu permesso all’indomani della caduta di Saddam Hussein: un Kurdistan autonomo.

A questo si aggiunge che le gerarchie ecclesiastiche locali non hanno una posizione unitaria riguardo alle milizie confessionali. In alcuni ambienti, per esempio il vescovado di Mosul rifugiato ad Erbil, sono viste con simpatia. In altri legati al Vaticano non mancano invece inquietudini. «All’Iraq non fa per nulla bene l’ennesima milizia legata a interessi particolari» dice tra i tanti padre Ghazuzian Baho della basilica di San Giorgio ad Al Qosh. Ma per il momento prevale l’emergenza. Molti cristiani combattono volontari con i curdi siriani dello Ypg, con gli stessi peshmerga e nei ranghi degli eserciti regolari sia iracheno che siriano. Per gli uomini delle «Unità di protezione della piana di Niniveh» l’obbiettivo prioritario resta la riconquista delle loro case a Mosul, dei borghi e villaggi tutto attorno. «È giunto finalmente il tempo che i cristiani lottino per i loro interessi» dicono ad Al Qosh. 

L’esortazione dei combattenti
Monsignor Youhanna Boutros Moshe, arcivescovo della Chiesa siro-cattolica per Mosul, si è recato a metà febbraio presso uno dei campo di addestramento delle «Unità di protezione della piana di Niniveh», per congratularsi con i volontari cristiani e incoraggiarli. Il vescovo ha loro ricordato che si trovano a difendere una regione che era loro prima ancora di Cristo, e si è detto fiero del loro coraggio e della loro risolutezza, atteggiamenti che rivelano la loro fede e la loro lealtà alla patria. Ha poi invocato su di loro la benedizione di Dio (Radio Spada, 24 febbraio).

I Foreign Fighters delle milizie cristiane
Arrivano dall’Occidente in Iraq, per combattere tra le fila di una milizia cristiana contro la crescente minaccia posta dai jihadisti dello Stato Islamico. Sono i cittadini occidentali che – come una sorta di contrappasso – hanno deciso di raggiungere l’Iraq ed entrare a far parte di ‘Dwekh Nawsha’, ”immolazione” nell’aramaico antico ancora parlato dai cristiani assiri che si considerano la popolazione indigena irachena. A riportare alcune delle loro storie ci pensa l’AdnKronos:

Tra i volontari, il sito di Ankawa cita il 28enne Brett, veterano dell’esercito americano tornato in Iraq per combattere l’Is in quella che descrive come la guerra tra il bene e il male. ”Vogliamo garantire la sicurezza qui, dove vive un grande popolo. Nelle città che stiamo controllando la gente ha ripreso a condurre una vita decente, possono andare al lavoro, le campane della chiesa suonano e riprenderemo anche altre città da Daesh”, ha detto usando l’acronimo arabo dell’Is.
Primo occidentale a essere entrato a far parte della milizia cristiana irachena, Brett è stato di recente seguito da altri, come l’ingegnere informatico Scott, per sette anni tra le fila dell’esercito americano. Inizialmente Scott voleva entrare a far parte delle unità di protezione del popolo curdo (Ypg) impegnate negli scontri contro l’Is per la liberazione di Kobane in Siria, ma ha cambiato idea dopo i sospetti di legami tra le milizie curde siriane e il Pkk, considerato dagli Usa un’organizzazione terroristica.


”Sono qui in Kurdistan per aiutare tutte le persone che vengono vendute come schiavi. Qui i bambini vengono uccisi, i cristiani sfollati ed è fondamentale proteggere chiunque, al di là della sua religione. Vengo dalla Carolina del Nord, negli Stati Uniti, ma sono più felice qui. Quello che voglio è cacciare Daesh (l’Is, ndr) dal Paese, distruggere le sue basi”, ha raccontato Scott.
Il dato comune a tutti i combattenti stranieri entrati a far parte della milizia cristiana è che la minaccia numero uno è oggi rappresentata dall’Is. ”Non sono troppo preoccupato per l’Is e per quello che può fare a me, sono solo un uomo. Ma io sono qui per proteggere degli innocenti a ogni costo. Vorrei che tutte le comunità lavorassero insieme, persone di ogni razza e religione insieme per combattere l’Is che è la vera minaccia, non solo in questa parte di mondo, ma anche in Europa e Nord America. E’ un problema mondiale e dobbiamo essere tutti coinvolti”, ha detto Andrew, un altro foreign fighter.
L’unica donna straniera tra le fila di Dwekh Nawsha racconta di essere stata ispirata dal ruolo femminile nelle milizie curde Ypg, ma spiega di identificarsi molto di più con i valori ”tradizionali” dei combattenti cristiani (Adn Kronos, 18 febbraio). 

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