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Poche luci, molte ombre sul Jobs Act?

Woman at work

© KieferPix/SHUTTERSTOCK

Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 23/02/15

Intervista con Stefano Tassinari, vicepresidente delle Acli

Sostiene l'economista Nicola Cacace citato nel rapporto delle ACLI: “La forza (del) lavoro. Per sconfiggere povertà e diseguaglianze” approvato lo scorso marzo 2014 dice che “Oggi che la crescita media del Pil nei paesi industriali arriva con difficoltà al 2%, mentre la produttività oraria continua ad aumentare con tassi intorno al 2%, grazie all'elettronica ed ai nativi digitali, l'occupazione si mantiene alta solo nei paesi che riducono gli orari di lavoro. I paesi europei che hanno fatto politiche in favore di orari annui più corti, legge delle 35 ore in Francia con annualisation des oraires, Kurzarbeit (lavoro corto), contratti di solidarietà e banca delle ore in Germania, part time volontario incentivato in Olanda, flexsecurity in Danimarca e paesi scandinavi, pensionamento progressivo, sono quelli a più bassa disoccupazione, 5% in Austria e Germania, paesi con orari di lavoro più bassi. In Italia l'orario annuo è del 23% superiore a quello medio di Francia, Germania ed Olanda, che significa 4 milioni di posti lavoro in meno” A questo si aggiunge la “trappola” della Legge Fornero circa i pensionamenti: tra i più alti del mondo per età (67 anni) e con un meccanismo che disincentiva l'uscita volontaria dal lavoro, pena la decurtazione della pensione, ha generato un collo di bottiglia che ha prodotto più disoccupazione e – tra le altre cose – il famoso problema degli esodati.

Ma per le ACLI il problema non è stato solo l'assenza di una flexsecurity, cioè delle necessarie politiche attive, ammortizzatori per tutti ecc.. ma il rifugiarsi nella scorciatoia del lavoro precario, invece di puntare di più sull'innovazione, sull'integrazione tra aziende e tra aziende, lavoratori e istituzioni più efficienti, sull'internazionalizzazione e indicano tre esiti negativi:

  • una minore innovazione della nostra economia, con investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo lontanissimi dalle medie europee, e lavoro dequalificato; mentre la qualificazione cresce con la stabilità (non solo ovviamente), dove si punta a "la persona giusta al posto giusto", e non a qualsiasi lavoro, perché qualsiasi lavoro tende ad accontentarsi di basse competenze;
  • generazioni di trenta quarantenni che non fanno figli e non investono perché senza lavoro stabile, determinando così un generale clima di paura del futuro e il conseguente blocco della domanda interna;
  • l'arretratezza del nostro settore dei servizi, la vera palla al piede della nostra economia che mina e sotterra i talenti del Paese, i suoi fattori di attrazione. Non c'è bisogno di essere degli economisti, basta vedere l'arretratezza di molta Pubblica Amministrazione oppure il delirio della nostra rete di trasporti locali e urbani o la bassa attività del nostro sistema portuale, bloccato da interessi e rendite di posizione localistiche ed economiche che fanno pagare a noi e alle imprese in termini economici (nonché occupazionali) una tassa più alta dell'Irap. Un settore, quello dei servizi, dove più che in ogni altro si è speculato sulla flessibilità, raccogliendo così oggi minore qualità e competitività, e quindi minore capacità di attrazione del sistema Italia. La crisi oggi aggrava tutte queste situazioni, ma non può essere usata come alibi, anzi deve spronarci a fare riforme che innanzitutto si interroghino su che cosa non ha funzionato.



E contemporaneamnte l'Ocse – l'organizzazione con sede a Parigi che monitora le politiche economico-sociali paesi più avanzati del mondo – in suo studio sull'Italia ha manifestato: "Lo Jobs Act renderà il mercato del lavoro italiano "più flessibile e inclusivo" e ne "ridurrà la dualità". E' quanto si legge nello Studio Economico sull'Italia dell'Ocse (Agi, 19 febbraio), ma ha anche invitato il Belpaese a rafforzare la rete di sicurezza sociale e le politiche attive per il lavoro e la crescita (Agi, 9 febbraio).

Aleteia, per capire meglio i cambiamenti che – stando agli annunci del Governo – il mondo del lavoro subirà ha raggiunto telefonicamente Stefano Tassinari, vicepresidente con delega al lavoro delle ACLI, Associazione Cristiana Lavoratori Italiani, per un parere su questo Jobs Act che ci dice immediatamente che ci sono “Alcune cose positive e altre meno”, qualche esempio?

Tassinari: Sono positivi gli intenti di introdurre strumenti come la conciliazione e la riduzione della precarietà…

E cosa non la convince?
Tassinari: Se la PA paga in ritardo, non ci sono i controlli, gli appalti sono al massimo ribasso, non si va a premiare sul mercato i bravi ma i furbi e le forme di precarietà resteranno in molti altri modi. Ricordiamoci che siamo un paese con molta economia in nero.

Cosa si poteva fare per i lavoratori?
Tassinari: Recuperare il tema della partecipazione dei lavoratori, era una delega della Fornero che nessuno ha preso in mano. Partecipazione dei lavoratori e rapporto col territorio fa sì che il lavoro, divenga una sorta di “bene comune” grazie alle pratiche della corresponsabilità. Aumenta la produttività ed è più facile operare in sinergia, una cosa che a noi italiani non viene bene. Dovremmo prendere esempio dalla Germania.

Altri aspetti positivi nelle politiche del Governo?
Tassinari: Sono importanti le politiche attive dei centri del lavoro, così come l'intento di creare maggiori sinergie tra scuola e impresa, sono fatti positivi che vanno nella giusta direzione…

Ma…
Tassinari: …da un lato si riduce la precarietà contrattuale, dall'altra però si aiuta a licenziare, arrivando anche ai licenziamenti collettivi: eppure con la riforma Fornero c'era già la possibilità di licenziare per scarso rendimento quindi a cosa servono le nuove norme? Solo ai licenziamenti ad personam. Inoltre non si distingue tra piccole aziende e multinazionali, bisogna creare pesi e contrappesi e la sensazione che emerge è che si sia l'aver voluto forzare il conflitto col sindacato.

Una critica che si sente spesso è l'assenza di politiche di welfare…
Tassinari: Se si tolgono alcune certezze, bisogna costruirne di nuove, noi non siamo un paese con welfare strutturato come la Germania o i paesi scandinavi. Noi spendiamo 7000 euro procapite pensioni comprese, in quei paesi si spendono 9-10 mila euro. E' chiaro che così non rischi la povertà a causa della perdita del lavoro. In Italia un divorzio, con relativo mantenimento dei figli, rischia di portare sotto la soglia di povertà anche persone che lavorano!

Ma quindi che tipo welfare abbiamo in Italia?
Tassinari: Il problema è che non c'è nessuna discussione in Italia sul Welfare. L'unica discussione che si fa è la devoluzione al privato di quei servizi che il pubblico non riesce più ad erogare. Siamo nel paese per cui il parroco usufruisce degli 80 euro, ma chi poi va allo sportello della parrocchia o della Caritas per farsi aiutare, non ce l'ha. Non c'è un disegno di riordino innovativo del welfare, ed è il grande tradimento di quella riforma che ha introdotto la flessibilità negli anni '90 senza le tutele e che oggi genera un esercito di precari.

E cosa genera?
Precarietà del lavoro, precarietà delle persone che hanno bisogno di servizi decenti.

Sembra una decisione ideologica dunque…
Tassinari: Il mondo non si divide in buoni e cattivi e in cui da un lato ci sono i lavoratori o gli imprenditori e viceversa. Bisogna fare una legge che sia oggettivamente tarata sul nostro paese che, ricordiamolo, è anche un paese dove c'è una fortissima propensione al lavoro nero, dove non c'è il controllo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e dove i lavoratori magari non parlano e non si lamentano per paura del licenziamento. Intendiamoci anche tanti uffici pubblici in giro per l'Italia non sono a norma, quindi non è nemmeno un problema di imprenditori. E' questo il Paese Reale, dove ci sono imprenditori bravissimi che fanno salti mortali per non licenziare nessuno, e ci sono gli squali… Bisogna tenere conto di questo quando si fa una legge sul lavoro e si eliminano le cause del licenziamento. Ce n'era bisogno? Io non credo…
In Germania ci sono i comitati aziendali attraverso cui si passa per il licenziamento, e parliamo di aziende dai 5 lavoratori in su. Lì c'è una educazione alla corresponsabilità tra lavoratori e azienda, territorio. E lì molto probabilmente se un lavoratore non ha voglia di lavorare, sono i colleghi farlo andare via…

E in mezzo c'è la più grande crisi demografica dall'Unità d'Italia
Tassinari: Siamo un paese in cui i trenta-quarantenni dicono “meno male che non ho una famiglia da mantenere”, è questa la loro strategia di sopravvivenza. Noi non diciamo che è un bene fare figli perché siamo cattolici, ma se passa questo messaggio per cui famiglia uguale povertà, uguale minaccia per la sopravvivenza allora siamo nei guai come società.

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