Abbandonare il Tonno che c’è in noi per cercare una soluzione al buio. Per farci desiderare il lume là in fondoMa cos’è ‘sta Quaresima, che comincia col mercoledì delle ceneri? Proviamo a spiegarla con Pinocchio, che su questo la sa lunga, anzi lunghissima.
Tutti sanno che il burattino finisce nella pancia del pesce-cane (non della balena, del pesce-cane). Dentro c’è un buio pesto. Pinocchio si mette a urlare:
– Aiuto! Aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi?
A questo grido qualcuno risponde:
– Chi vuoi che ti salvi, disgraziato?… – disse in quel buio una vociaccia fessa di chitarra scordata.
Il padrone della voce è un tonno, che chiede al nuovo arrivato di identificarsi in quanto pesce. E quando Pinocchio gli risponde di non essere affatto un pesce, l’altro gli domanda perché mai allora si sia fatto inghiottire. La risposta è molto pinocchiesca:
– Non son io, che mi son fatto inghiottire: gli è lui che mi ha inghiottito! Ed ora che cosa dobbiamo fare qui al buio? …
Pinocchio ha ragione: il passato non conta: è il presente che chiede una soluzione. La sua domanda è la stessa che dà il titolo ad un famoso libro di Lenin all’inizio della Rivoluzione: “Che fare?”. Sottotitolo: Problemi scottanti del nostro movimento. Anche il buio nel ventre del pesce-cane è un problema scottante: “che fare?” che fare ora? La risposta è di quelle da far cadere le braccia:
– Rassegnarsi e aspettare che il Pesce-cane ci abbia digeriti tutt’e due.
Il seguito del dialogo segna la distanza ideologica tra i due inghiottiti. L’uno, l’eroe del libro, non può tollerare l’idea di una fine ingloriosa dei suoi giorni. Non è fatto per il buio, lui. L’altro è la figura simbolica del cinismo e della rassegnazione – della disperazione tamponata, stabilizzata, avrebbe detto qualcuno – tipiche della società borghese di fine Ottocento. E non solo.
– Ma io non voglio digerito! – urlò Pinocchio, ricominciando a piangere.
– Neppure io vorrei essere digerito, – soggiunse il Tonno, – ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando a che, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!…
– Scioccherie! – gridò Pinocchio.
– La mia è un’opinione, – replicò il Tonno, – e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate.
– Insomma… io voglio andarmene di qui… io voglio fuggire”.
– Fuggi se ti riesce.
Il dilemma è appunto questo: c’è o non c’è alternativa al buio dell’esistenza, al volere cieco della sorte che divora ogni cosa? La Quaresima si situa esattamente al centro di questo dilemma: da una parte il desiderio e la speranza di ritrovare la luce, dall’altra il convincimento “filosofico” che alla morte non esiste alternativa se non illusoria.
Ed è a questo punto che Collodi ci spiega in cosa consistono i giorni che ci aspettano dopo le ceneri. Pinocchio, infatti, decide di lasciare il tonno al suo pessimismo e si muove, brancolando, camminando
a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un passo dopo l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.
E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto, che gli pareva di essere a mezza quaresima.
L’odore di mezza quaresima, l’odore di pesce fritto, non ci appartiene più. Se n’è andato con quello del pane appena sfornato nei paesi, che segnalava la sera del sabato. Prima della loro scomparsa il tempo di Quaresima era tempo di magro, nel senso che si mangiava pesce, non carne, e al venerdì si faceva digiuno. La precisazione “mezza quaresima” è di un realismo nitidissimo perché l’odore non si spandeva subito per le strade: ci voleva un paio di settimane perché l’aria ne fosse impregnata. E quando si era giunti a quel punto si cominciava a veder più vicina la Pasqua, ossia si cominciava a vedere più chiaro: il lumicino in fondo al buio. Il definitivo trionfo della luce. E infatti, proseguendo verso quella luce sempre più distinta, il burattino
trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.
Pinocchio, alla fine del buio, ritrova suo padre. Quel tavolo assomiglia troppo a un altare perché si possa pensare che non rappresenti la Pasqua, l’annuncio di una possibile – forse certa – resurrezione. E infatti
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un’ette che non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò ad urlare:
La Quaresima è il tempo che è dato a ciascuno di noi per preparare il nostro fisico – compreso il cuore e il cervello – a godere di un’allegrezza che non potrebbe essere “così grande e così inaspettata” (così illogica, avrebbe detto Gaber) se non avessimo mai sperimentato, nel buio dell’esistenza, la tremenda imminenza della morte. Come il figlio che, chiesta la sua parte di eredità e abbandonata la casa paterna, aveva deciso di farvi ritorno solo dopo aver conosciuto la tragedia del vivere soli e senza padre, così per Pinocchio, fuggito di casa in cerca di libertà, il ventre nero della vita che ci inghiotte diventa il luogo in cui più grande e più inattesa si presenta la salvezza:
– Oh babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!
– Dunque gli occhi mi dicono il vero? – replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi, – dunque tu se’ proprio il mi’ caro Pinocchio?
– Sì, sì, sono io, proprio! E voi mi avete digià perdonato, non è vero? Oh! babbino mio, come siete buono!…
Babbino, babbino, mi avete già perdonato, vero? La Quaresima è il tempo dell’esperienza del digiuno e del buio. Che bisogno c’è di proporla agli uomini, vien da domandare.
La prima delle 101 storie Zen – i buddisti non conoscono la quaresima, ma non importa – racconta di un professore che si presentò ad un monaco chiedendo che gli insegnasse lo zen.
Nan-in, il monaco, servì il tè, continuando a versarlo fino a quando il professore, vedendo traboccare il liquido dalla tazza, gli fece cenno di fermarsi: «È ricolma. Non ce n’entra più!»
«Come questa tazza,» disse Nan-in «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?».
Il professore, con le sue opinioni e le sue congetture, è la versione buddista del Tonno. I grandi maestri sanno da sempre che avere la tazza piena delle nostre disperate sicurezze può indurci – nel migliore dei casi – a ritenere un vantaggio finire sott’acqua invece che sott’olio.
Meglio, dunque, rifare l’esperienza del vuoto che ci consentirà di gridare di nuovo, dal profondo del buio: «Aiuto! Aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi?»
A questo appunto serve la Quaresima: a farci decidere di abbandonare il Tonno che c’è in noi per cercare una soluzione al buio. Per farci desiderare il lume là in fondo e gridare con tutto il nostro cuore, più di quanto non abbiamo mai fatto: «O Dio vieni a salvarmi. Signore vieni presto in mio aiuto».