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La scorciatoia della regola nell’educazione dei figli

Father Daughter – it

© Mark Groves - Flickr

Franco Nembrini - La Croce - Quotidiano - pubblicato il 17/02/15

L'educazione è sempre un rischio. E il rischio è necessario alla libertà dell’altro

Da parte dell’adulto l’educazione comporta sempre un rischio, comporta sempre una misteriosità, un’imprevedibilità, l’impossibilità di dare alcunché per scontato. Il rischio è necessario alla libertà dell’altro, e scommettere tutto sulla libertà è la cosa più difficile e più terribile.

Per questo sentiamo come scorciatoia la regola, se riesco a imporre a mio figlio il rispetto della legge penso di aver svolto il mio compito di educatore; e invece ne ho fatto un burattino, o un inadeguato, uno che osserva le regole ma non ha un criterio suo di libertà, una convinzione sua: lo hai tirato su come un burattino, uno schiavo.

Quella delle regole è un tema diffusissimo che ritrovo spesso nelle domande che mi sottopongono i genitori. Io vi invito solo a riflettere su questo: Gesù nel Vangelo dice due cose. Quando parla della legge dice che Lui è venuto a liberarci dalla schiavitù della legge e quando poi gli chiedono qual è la regola d’oro della vita, apparentemente in modo banale dice che è l’amore: “Ama Dio”. Cioè “Abbiate un ideale grande nella vita, imparate a riconoscere la grandezza della vostra vita e della vostra persona, che è quella infinita che vi ha dato Dio. Riconoscete questa dipendenza da Dio come dono che vi costituisce, perciò siategli grati e riconoscenti, amate Dio e amate il prossimo come voi stessi”.

Non si può pensare che la vita dell’uomo, così legata al tempo e allo spazio, non abbia bisogno di leggi e regole. Viviamo dentro alle leggi. Pensiamo alle leggi fisiche: uno non può permettersi di saltare da cinque metri, perché c’è una legge che si chiama gravitazione per cui quando arrivi giù ti spacchi la faccia.

Viviamo soggetti alla legge; ma la regola deve essere strumento e mai scopo. Noi ci mettiamo una buona intenzione che diamo per scontata, e cioè che vogliamo bene ai nostri figli; dopo di che lo scopo della vita diventa che rispettino le regole, e questo è inaccettabile. Se è una sostituzione, il più delle volte inconsapevole, tra lo scopo e lo strumento, è inaccettabile, diventa una guerra di interessi contrapposti. Lo scopo è che il figlio viva e cresca, che venga su in tutta la sua libertà, che abbia anche la libertà di sbagliare, perché è nello sbagliare che si corregge e che tante volte si prende la misura sulla realtà.

La libertà è una cosa seria. Non è affatto detto che a due genitori santi corrispondano figli santi, perché c’è di mezzo la libertà; vale anche il contrario, per la stessa ragione. Il mistero della libertà è una cosa così seria che in educazione non si lavora che per questo: per educare la libertà, per salvare la libertà.

Una volta mi trovavo a Domodossola, in una assemblea, quando si alza una mamma che scoppia a piangere e racconta di sua figlia con un disagio inenarrabile, una storia di devianza e di droga. Quella donna mi chiedeva quale fosse il punto in cui doveva intervenire con la forza per bloccarla e salvarla, cosa che riteneva parte del suo dovere di madre. Sono rimasto interdetto da una madre che raccontava una pena infinita per una figlia che lei vedeva consumarsi, buttarsi via; per qualche secondo sono rimasto pensieroso, non sapevo bene cosa dirle. Dalle prime file si alza la mano di una suora molto anziana, la quale chiede di rispondere. Racconta di quando portò da don Luigi Giussani una donna che le aveva posto una questione simile, cui nemmeno lei sapeva rispondere, alla quale don Giussani aveva detto che quel punto non esiste, perché se Dio che ha dato suo figlio per noi, se Dio, che ci ama infinitamente di più di quanto noi possiamo immaginare, ci permette di andare all’inferno, non ci salva per forza, allora lei non poteva fare questo con sua figlia. Questa risposta, da quando l’ho sentita sei mesi fa, mi accompagna come una domanda, perciò la riporto in questi termini. 

Occorre lavorarci su per capire che se Dio ci salvasse per forza, contro la nostra libertà, otterrebbe dei burattini, dei gattini, dei cagnolini, ma non degli uomini, non degli uomini liberi. Noi con i nostri figli dobbiamo probabilmente procedere nello stesso modo.

Noi dobbiamo correre questo rischio della libertà, questo rischio terribile di cui parla la parabola del figliol prodigo, la più grande parabola del Vangelo con a tema l’educazione. Quel Padre, che è Dio stesso, ha due figli e il più giovane – forse quello che guardava con più affetto, come spesso accade con il più piccolo – gli dice: “Bravissimo papà, hai fatto tutto perfettamente, ma non me ne importa niente, dammi la parte di beni che mi spetta che vado a spenderli con delle prostitute: voglio buttare via la mia vita, la voglio bruciare, voglio distruggermi”. Quel padre lo lascia andare, permette che il figlio corra fino in fondo il rischio della sua libertà.

Noi tendiamo a leggere male questa parabola perché pensiamo subito che in fondo è finita bene perché il figlio è ritornato a casa sano e salvo! Invece che dramma dev’essere stato! Che cosa deve aver vissuto quel Padre! Eppure Gesù ce lo indica come modello dell’educazione. Che cosa deve aver provato quel padre sentendosi dire “Vado a buttar via la mia vita, voglio andare a vivere con i porci” (che per la cultura ebraica era la cosa più infame, la più degradata, il peggio del peggio). Quel Padre lo lascia andare. Quale reazione avremmo noi? Quasi sempre, una di queste due: la più istintiva, ci arrabbieremmo dicendo: “Come ti permetti, guai a te, tu non esci da questa casa!”, scegliendo per la soluzione autoritaria, con il risultato che così il figlio lo abbiamo già perso (e si può stare sotto lo stesso tetto abitando a distanze siderali: il figlio è perduto lo stesso). Oppure, quella più in voga oggi, il padre che fa l’amico del figlio, che ci pensa su un attimo poi dice: “Vengo anch’io con te, così ti tengo d’occhio, e poi sono giovane, ho avuto anch’io la tua età”.

Così il povero figliol prodigo si trova nella bella situazione che siccome suo padre ha venduto tutto per seguirlo, il giorno in cui decide di tornare, perché capisce di avere sbagliato, non sa dove tornare, si alza, e scopre che suo padre è lì con lui. Questo ragazzo si spara, perché gli è stata portata via ogni possibilità di ritorno, ogni possibilità di perdono, è condannato alla disperazione più nera, senza possibilità di tornare. Il padre è venuto meno alla sua funzione di coerenza ideale che lo doveva far rimanere fermo nel suo ruolo, nelle sue scelte. Il Padre del Vangelo è rimasto.

Sant’Agostino scrive: “È il Verbo stesso che ti grida di tornare; il luogo della quiete imperturbabile è dove l’amore non conosce abbandoni”. Con tutto il dolore, con tutto lo strazio che può avere patito, quel Padre è rimasto. Per anni potrebbe essere salito all’ultima finestra più alta della casa a scrutare l’orizzonte, perché il Vangelo dice che il padre lo vide da lontano tornare; e non dev’essere passata una settimana, avrà passato anni a scrutare l’orizzonte nella disperata attesa che il figlio ritornasse, così lo vede proprio in cima alla collina e gli corre incontro, Lui era lì, era nella sua casa, al posto che aveva scelto per se stesso. E l’essere lì, l’avere mantenuto la casa sulla roccia, l’esserci del padre e della madre è la grande condizione per cui l’educazione possa sperare in un compimento, anche di fronte agli sbagli, ai tradimenti, ai capricci prima, poi ai grandi «no» dell’adolescenza e della giovinezza. Per un figlio la speranza che tutto si compia nel bene tanto atteso è che l’adulto stia, rimanga, che una casa ci sia, che ci sia un perdono. La cosa di cui tutti abbiamo bisogno per vivere è il perdono, è sapere che c’è un posto dove possiamo tornare. Quel Padre ha corso il rischio; e questo non sarà risparmiato a nessuno di noi, né insegnanti né genitori, se vogliamo essere educatori.

Benedetto XVI su questa parabola durante un Agelus in Piazza San Pietro diceva che “solo sperimentando il perdono, riconoscendoci amati di un amore gratuito, più grande della nostra miseria, entriamo finalmente in un rapporto veramente filiale e libero con Dio e soprattutto contempliamo il cuore del Padre”.

C’è una possibilità di sperare del bene nella vita dei nostri figli, un ultimo bene, se si può confidare che alla fine comunque il male non vinca (qualsiasi “no”, qualsiasi negazione, qualsiasi tradimento abbiano perpetrato), ed è guardando il Figlio di Dio sulla Croce quell’uomo che ha assunto su di sé ogni dolore, ogni tradimento, ogni ferita e li ha vinti.

Ci vuole coraggio, perché l’educazione è una di quelle cose che toccano l’intimità della vita adulta, e lasciarsi mettere in discussione su come trattiamo i figli è difficile. E’ una questione che si fatica a condividere anche con gli amici più intimi; però bisogna provarci, bisogna avere il coraggio di farlo.

La prossima sfida è a Roma dove con tanti amici cercheremo di rispondere alle domande sul mistero del dolore che ferisce le nostre vite e quelle dei nostri figli.

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