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Sciopero della fame: è lecito? Come rispondere?

sciopero della fame

© Public Domain

Joan Antoni Mateo - pubblicato il 13/02/15

Il fine non può giustificare i mezzi; si deve procedere ad alimentare lo scioperante quando la sua vita è in pericolo

È lecito ricorrere allo sciopero della fame? I martiri non si tolgono in qualche modo la vita rifiutandosi di rinunciare alla fede mettendo in atto una semplice finzione?

La dottrina della fede e il senso comune ci fanno vedere che non è giusto né corretto mettere la vita in grave pericolo senza che ce ne sia una notevole necessità – ad esempio, affrontare un intervento medico incerto di fronte all’alternativa di una morte certa o lottare per fermare aggressori ingiusti che danneggiano gli innocenti.

Non esiste una dottrina magisteriale cattolica sullo sciopero della fame. Credo che non ci siano pronunciamenti diretti, vista la relativa novità del fenomeno, soprattutto nella sua dimensione mediatica.

Lo sciopero della fame, se non è una montatura o un semplice digiuno, implica che lo scioperante sia disposto ad arrivare alle conseguenze estreme, ovvero a morire di fame se non si risponde alle sue rivendicazioni, e risulta evidente che è lo scioperante stesso a provocare la propria morte, perché nessuno lo costringe a smettere di mangiare, e in questo senso viene assimilato al suicidio. Un suicidio lento e che va evitato anche se questo va contro la volontà dello scioperante.

Questa morte, inoltre, provocherebbe solo gioia ai tiranni. Anche se le intenzioni dello scioperante sono le migliori del mondo, non renderanno positivo qualcosa che è radicalmente disordinato. Il fine non può giustificare i mezzi. Evidentemente si deve procedere a nutrire lo scioperante quando questi mette in pericolo la propria vita. Probabilmente al momento giusto se ne rallegrerà.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che “ciascuno è responsabile della propria vita davanti a Dio che gliel’ha donata. Egli ne rimane il sovrano Padrone. Noi siamo tenuti a riceverla con riconoscenza e a preservarla per il suo onore e per la salvezza delle nostre anime. Siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo. Il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare e a perpetuare la propria vita. Esso è gravemente contrario al giusto amore di sé” (nn. 2280-2281).

Come abbiamo detto molte volte, spesso è un atto che non viene realizzato con libertà e responsabilità piene.

È del tutto inappropriato assimilare sciopero della fame e martirio. I martiri cristiani sono fedeli a Dio fino alla morte, ma non si provocano da sé quella morte. La subiscono, la sopportano per mano dei persecutori per la fedeltà alla loro fede, ma non la cercano. Ed evidentemente se possono fuggire dalla morte devono farlo, ma non al prezzo di vendere la coscienza.

Fingere di rinunciare alla fede è incompatibile con la più elementare dignità della coscienza. Un’autentica ridicolaggine di fronte a Dio e a se stessi.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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