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«Benedetto XVI ha agito validamente e lecitamente. Non ci sono due titolari del munus petrino»

Court vetoes criminal case against Benedict XVI – it

VINCENZO PINTO

Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 12/02/15

A due anni dalla rinuncia di Ratzinger, la canonista Boni prova a sciogliere i profili giuridici della rinuncia del successore di Pietro

A due anni dalla rinuncia a proseguire il pontificato da parte di Benedetto XVI, restano ancora molti nodi irrisolti sulla scelta di Ratzinger. Geraldina Boni, Professore ordinario di Diritto Canonico e di Storia del Diritto Canonico alla Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Bologna, a sgombrarli in un volume a cui sta lavorando. «Si tratta di uno studio sui profili giuridici della rinuncia del successore di Pietro – evidenzia la canonista -. Se la materia è stata ampiamente trattata dal punto di vista storico, forse mancava un’analisi delle connotazioni squisitamente giuridiche di questo istituto in base al diritto canonico vigente».

Ci può preannunciare su quali tesi verterà il volume?

Boni: «La disamina muove dalle ragioni teologico-giuridiche della ‘legittimità’ di questo atto, incardinate sul rapporto tra accettazione dell’elezione da parte dei cardinali e consacrazione episcopale, dunque tra ordine e giurisdizione, fino a giungere ai requisiti sanciti dallo ius canonicum per la validità dell’atto. A quest’ultimo proposito ci si è generalmente soffermati, alla luce del tenore letterale del canone 332 § 2 del Codice di Diritto Canonico, soprattutto sulla manifestazione esteriore della rinuncia, sulla libertà della medesima e sulla non necessità della sua accettazione. Ci pare invece si sia trascurato l’elemento della causa renuntiandi: la quale, se è vero che, come tralatiziamente si afferma, è richiesta meramente ad liceitatem e non ad validitatem, non per questo la sua importanza può essere svalutata, indulgendo a deviate visioni positivistiche e legalistiche del diritto canonico. E a questo proposito la Declaratio dell’11 febbraio 2013 di Benedetto XVI si presta a pregnanti considerazioni: infatti – ci sembra – i suoi riferimenti all’ingravescens aetas e alla coscienza personale sono stati fraintesi in alcune interpretazioni, mentre vanno calati nell’autentica realtà anche giuridica della Chiesa. Lo studio mira inoltre a proporre alcune riflessioni sullo status del papa che ha rinunciato, argomento evidentemente non molto approfondito sinora, trattandosi di un gesto che, pur normativamente contemplato e regolato, resta nondimeno, in via di fatto, ‘straordinario’. A questo aspetto si connette anche un altro problema che oggi travaglia la canonistica».

A cosa si riferisce?

Boni: «Al problema delle soluzioni giuridiche da apprestare, colmando l’esistente lacuna normativa, laddove la Sede Apostolica sia impedita, non potendo il pontefice adempiere al suo ufficio. Interessante a questo riguardo considerare alcune situazioni sperimentate dai papi del secolo appena congedato, i quali, o per contingenze belliche o per motivi di salute, hanno (variamente invero) ipotizzato la propria rinuncia ovvero un possibile passaggio dalla sede impedita alla sede vacante: siamo dinanzi ad uno snodo cruciale per il quale urge una seria riflessione anche giuridica. Questi alcuni dei temi esaminati nel nostro lavoro».

Il fatto che Ratzinger abbia conservato l’abito bianco, abbia continuato a definirsi “papa emerito” e a firmarsi “Benedictus”, e non abbia cambiato lo stemma pontificio, pone delle questioni spinose dal punto di vista canonistico?

Boni: «I quesiti da Lei posti hanno un differente rilievo giuridico».

Cioè?

Boni: «Se può apparire ‘anomala’, ad esempio, la scelta di vestirsi di bianco da parte di Joseph Ratzinger e soprattutto la sua risposta alle domande insistenti dei giornalisti che non v’erano a disposizione altri vestiti, una risposta surreale se non (e direi giustamente, data la petulanza) derisoria, per converso un’ampia parte del nostro studio si sofferma sul neologismo ‘papa emerito’ o ‘sommo pontefice emerito’. Riguardo ad esso nutriamo sommessamente – in verità in compagnia di altri autorevoli canonisti – qualche perplessità: anzitutto di carattere giuridico (si è rinunciato all’ufficio di papa, dismettendo ogni potestà nella Chiesa: il discorso è in verità più complesso, seppur, ci pare, canonisticamente stringente), ma anche sull’opportunità del titolo, per le ‘appendici’ che ad esso potrebbero legarsi, come confermano alcune proposte azzardate che taluno ha avanzato (papato a termine, collegio regnante di papi, ecc.). Lo stesso Ratzinger, in una recente intervista, ha dichiarato che non era sua volontà essere qualificato in tal modo, capitolando poi dinanzi alle pressioni altrui».

Resta il fatto che mediaticamente le scelte di Benedetto hanno fatto molto rumore.

Boni: «Quello che mi preme sottolineare è proprio che l’esagerata enfasi posta su queste circostanze, con la prospettazione delle ipotesi più bizzarre (oltre che scientificamente inconsistenti), è stata strumentalizzata senza scrupoli da taluno per alimentare oziose polemiche circa oscure trame in Vaticano, addirittura per fomentare una specie di ‘rivalità’ tra i ‘due papi’: rumor che ricorda gli odiosi chiacchiericci intorno alla vicenda Vatileaks, smentiti poi dalle trasparenti risultanze processuali. Lungi da noi queste intenzioni, del tutto deprecabili, frutto dell’odierna insensata spettacolarizzazione ad ogni costo: le mie sono solo le considerazioni tecniche di un canonista per una maggiore comprensione della realtà ecclesiale, una realtà tra l’altro che vive oggi un momento di grande serenità e vitalità».

In un saggio apparso sulla “Rivista Teologica di Lugano”, scritto da Stefano Violi, si è sostenuto che nella sua Declaratio Benedetto XVI distingue fra munus petrino ed executio muneris, e poi nella executio muneris, tra un’executio amministrativo-ministeriale (agendo e loquendo) e una più spirituale (orando e patiendo).

Boni: «Un intero capitolo del mio libro è dedicato alla contestazione della tesi di Violi (ed alla chiarificazione del rapporto, nella cathedra Petri, tra ordine e giurisdizione), le cui confuse distinzioni, a nostro avviso, non hanno alcun fondamento (oltre che nel linguaggio) nel diritto canonico. Esse inoltre rischiano di veicolare – con tale scissione/opposizione, tra governo operoso, per un lato, e fiducioso assegnamento in Dio nell’orazione e nell’afflizione, per l’altro, che lascia interdetto anche chi abbia solo un barlume del ‘fenomeno’ del potere nella Chiesa – una lettura artificiosamente ancipite del munus petrino, ma anche una rappresentazione scompensata, subdolamente carismatica e disincarnata della societas Ecclesiae e del suo supremo pastore: una rappresentazione da sempre combattuta e che certo Ratzinger non apprezzerebbe. Tale visione, tra l’altro, finisce per omologare il ruolo del nocchiero della nave di Pietro, al timone tra i marosi, al livello dei detentori dei poteri secolari, immiserendolo. Si è inoltre quasi indotti ad una sorta di ‘contrapposizione ecclesiologica’. Al contrario, l’appartarsi di Ratzinger nella preghiera, quale vescovo emerito di Roma, intercessore orante sub Petro, ha una significativa valenza cristocentrica ed escatologica: non però in antitesi con chi a tale scelta non ha acceduto in passato e non accederà in futuro, ma nella complementarietà tra vita contemplativa e vita activa e nella pluralità dei carismi da cui ogni tappa dell’avventura terrena della Chiesa è ossigenata».

Benedetto XVI dichiara non di rinunciare al papato secondo il dettato della Quoniam alicui di Bonifacio VIII, né al munus secondo il dettato del can. 332 § 2 ma al ministerium o meglio all’“esercizio attivo del ministero”. Quindi non ha rinunciato in toto al papato?

Boni: «Tale tesi è, secondo me, assolutamente non condivisibile: come anticipato, infatti, le distinzioni avanzate sono del tutto prive di fondamento. Benedetto XVI ha agito validamente e lecitamente – in ascolto della volontà divina palesatasi nell’intimo della sua coscienza – rinunciando al munus-officium di papa, nel quadro del can. 332 § 2 (ma, intendiamoci, avrebbe potuto farlo con la medesima sostanza anche se tale norma non fosse stata formalizzata; e certamente non doveva espressamente richiamarla quando ha esternato la sua volontà). Quello che non ha deposto – né era nelle sue facoltà: il potere pontificio non è illimitato ma fluisce entro gli argini segnati dallo ius divinum – è, semmai, il munus ricevuto sacramentalmente con la consacrazione episcopale, come qualunque altro vescovo. Non ci sono due titolari del munus petrinum, tesi insostenibile, oltre che francamente aberrante e pericolosa».

All’interno della gerarchia ecclesiastica dove si colloca la figura del “papa emerito” rispetto ad un cardinale?

Boni: «La questione se Joseph Ratzinger, dopo la rinuncia, sia o no ancora cardinale ci pare sia stata oggetto di eccessiva attenzione, non essendo di grande profitto pratico discernere se egli possa ancora fregiarsi della berretta rossa. Infatti Ratzinger, pluriottantenne, è deprivato del principale diritto-dovere dei porporati – essendo stato ormai pressoché parificato lo statuto giuridico di questi ultimi (da Giovanni XXIII, tra l’altro, tutti ordinati vescovi) a quello episcopale -, il diritto-dovere cioè di votare in conclave (anche se del tutto teoricamente il problema, se non altro di ‘correttezza costituzionale’, per così dire, della partecipazione attiva a quest’ultimo si porrebbe per futuribili papi rinunciatari meno anziani). Nel mio studio tuttavia adduco le argomentazioni che mi fanno propendere per la tesi che il papa rinunciatario non sia più cardinale. E comunque, l’eventuale esclusione di Ratzinger dal collegio cardinalizio non vieterebbe ogni forma di cooperazione con la cathedra Petri a cui venisse sollecitato e alla quale del resto avrebbe diritto in qualità di vescovo emerito di Roma: collaborazione cui felicemente papa Francesco sembra faccia ricorso molto volentieri e proficuamente».

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papa benedetto xvirinuncia al ministero petrino
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