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Il mio nome, in fondo in fondo, cosa dice di me?

Narciso

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don Fabio Bartoli - La Fontana del Villaggio - pubblicato il 06/02/15

Sembra che esprimere se stessi sia diventata la vera religione del nostro tempo

Cosa è un nome?

Il nome dice l’identità, la persona. Il mio nome sono io, il mio esserci per il mondo. Per questo è fondamentale che il mio nome dica davvero ciò che sono, perché se forma e sostanza non coincidono allora io sono un’apparenza vuota. Il nome non è l’io, l’io è la sostanza, ma senza un nome, senza una forma, questo io rimane sconosciuto, misterioso. Quante persone vedo intorno a me che indossano tanti nomi, con la facilità con cui si cambia un vestito. Oggi sei Mario e domani Giovanni, oggi ti chiami dottore, sei uno stimato professionista, e domani magari allo stadio diventerai Genny a’ carogna o qualcosa di peggio.

A volte si ha la sensazione di vivere nel mondo di Dungeons & Dragons, nel mondo dei giochi di ruolo, dove ognuno può scegliere mille volte chi essere a seconda delle circostanze, in un’infinito gioco di specchi che duplica le apparenze. In questo modo però sfugge la profondità. Non che non ci sia, ma la si rende inaccessibile, sommergendola in un sovrapporsi di mille piani diversi. Se hai mille identità non ne vivrai nessuna profondamente, potrai forse dare l’illusione a qualcuno di essere profondo, ma in realtà ad un esame un po’ più attento, a uno sguardo ravvicinato, si vede facilmente che nessuna di quelle identità è vissuta fino in fondo, il tuo vero nome resta nascosto, ignoto perfino a te stesso.

C’è un’immensa solitudine in questa condizione esistenziale, perché se nessuno sa dire il mio vero nome, se nessuno lo pronuncia, allora neppure io lo conosco. E se pure un giorno l’ho conosciuto quel nome, presto lo dimenticherò, stordito dal gioco dell’intercambiabilità.

Nel libro delle Genesi si racconta che il primo dovere dell’uomo è dare un nome alle cose, conoscerne cioè la forma e la sostanza, la natura e l’apparenza. A tutto l’uomo deve dare un nome, perfino alla donna, cioè all’altro da sé. Ad uno solo Adamo non può dare il nome: a se stesso, perché la verità profonda di ciò che siamo ci resta inevitabilmente nascosta. Solo un Tu, cioè uno diverso da noi, può darci il nome. Solo nell’incontro con un amico posso conoscere me stesso.

Il mondo è ossessionato dall’io, dall’affermazione dell’io. Sembra che esprimere se stessi sia diventata la vera religione del nostro tempo, il dogma irrinunciabile. E questo io ipertrofico è un moloch a cui sacrificare ogni cosa: io voglio quindi io ho diritto ad avere. Il capriccio diventa così sinonimo del diritto, la soddisfazione sinonimo della felicità.

Ma per questa via nessuna felicità è possibile, perché se non si sottomette a un tu l’io scompare, dimentica il suo nome perché nessuno lo pronuncia.

Si passa quindi da un capriccio all’altro, da un “voglio” a quello successivo, consumandoli in una frenesia paragonabile a quella di una giornata di shopping compulsivo, alla fine della quale ci ritroviamo esausti e più vuoti di prima. Nessun capriccio infatti, nessun “voglio” potrà darci ciò di cui abbiamo davvero bisogno: un tu che ci riconosca, che pronunci il nostro nome strappandoci all’anonimato, che ci dia la certezza di esistere, che ci confermi nella nostra identità.

Tutto si può comprare nel paese dei balocchi, perfino un’amante, perfino un figlio. La conseguenza inevitabile però è che se tutto si può comprare allora tutto si può vendere e tutto dunque diventa merce, merce indistinta, grigia, tutta uguale, in cui la sola differenza di valore è il prezzo pagato per ottenerla.

Tutto? No, tutto no. L’amico resiste alla mercificazione delle cose. L’amico è il solo che non potrai mai comprare, perché nell’istante stesso in cui ci provi sai che lo avrai perduto.

Per questo l’amico e solo l’amico è il tu che ti può dare un nome, che esiste indipendentemente da te, e che proprio perché è diverso da te è il solo che ti può salvare. Ricordate la favola del barone d Munchausen che raccontava di essersi salvato dalle sabbie mobili tirandosene fuori da solo per i capelli? È del tutto ovvia l’impossibilità di questa prodezza, eppure tutti noi siamo lì, nella palude della vita, a cercare di cavarcene fuori da soli ed invece solo un altro-da-me può afferrarmi e liberarmi.

Solo chi esiste per qualcuno esiste davvero. E non ci appaga esistere per una folla, una folla è sempre un pubblico, non può mai essere un tu perché non offre alcuna relazione. Naturalmente anche un singolo può essere un pubblico, questo accade quando la relazione non è bilaterale, quando il rapporto è a senso unico ed io uso l’altro come una sorta di contenitore in cui riversare il mio io, senza mai davvero avviare un dialogo, senza in sostanza permettergli di essere se stesso indipendentemente da me.

Solo aprendo nel cuore uno spazio per lasciarvi entrare il tu, solo accogliendolo incondizionatamente in noi stessi, solo permettendogli di uscire dal generico ed indistinto mondo delle cose e rendendolo unico ed irripetibile diventiamo noi stessi unici ed irripetibili.

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