Non credevo che a mio nonno potesse toccare una morte santa, era il contrario di un buon cattolico. E invece…di Silvia Lucchetti
Se ha avuto una morte santa mio nonno Lucio, un diavolo come lui, peccatore, egoista, prepotente, aggressivo, testardo, menefreghista, bestemmiatore, un uomo che ha trascorso la sua giovinezza nei bar tra ubriaconi e prostitute, credo che veramente Gesù Cristo mandi il Suo Spirito a rinnovare la nostra vita, a illuminarci della Sua luce, a darci morte santa.
manda a noi dal cielo
un raggio della tua luce
Non credevo che a mio nonno potesse toccare una morte santa, era il contrario di un buon cattolico ma devoto alla Madonna delle Lacrime di Siracusa perché gli aveva sorriso e lo aveva esaudito nella preghiera di salvare i suoi figli durante la guerriglia. Questa però è un’altra storia che spalancherebbe un mondo, come l’armadio di Narnia, anche se si svolge in Eritrea. La storia che voglio raccontarvi oggi è ambientata a Roma, comincia precisamente a Torre Maura, nella palazzina più piccola e brutta di Via delle rondini, in una casa stracolma di attrezzi da lavoro, libri, fogli sparsi, macchine da scrivere e arnesi di ogni tipo: l’appartamento dei miei nonni. Le pareti emanavano l’odore delle Nazionali, si respirava un’aria impolverata di ferri vecchi e negli ultimi periodi anche di pipì. Nonno non si lavava da anni, rifiutava chiunque volesse ordinare e pulire la sua casa, insultava la moglie ogni volta che passava lo straccio e spolverava: «Sopportare pazientemente le persone moleste» gli ripeteva lei per non perderla, quella pazienza. Detestava aprire le finestre per rinfrescare l’ambiente, odiava i detersivi «Chissà cosa ci mettono dentro i comunisti», e mal tollerava che le sue cose fossero toccate o spostate. In questo caos hanno sempre vissuto i miei nonni, Lucio e Lucia, da quando con i figli lasciarono il mar Rosso e arrivarono in Italia. Hanno abitato la stessa casa per più di trent’anni, fino a quando la loro salute non si aggravò; nonna nel giro di pochi mesi cominciò a perdere la memoria con conseguenze serie per la sua vita e quella del marito, al quale nello stesso momento si acuì la malattia che lo aveva già colpito da tempo. Lo avevo immaginato da sempre come un uomo forte, con una vita piena e avventurosa, quella mattina lo scoprii povero.
Vieni, Padre dei poveri,
vieni, datore dei doni,
vieni luce dei cuori
Era il giorno che finalmente scelsi il mio abito da sposa, eravamo io mamma e zia Ilaria, soltanto noi quella mattina, non avevo voluto le amiche perché per decidere, desideravo essere quasi sola.
Riprovato l’abito che mi era piaciuto la volta precedente, decisi che era il mio, pur continuando a guardarmi allo specchio e a vederci riflessa una bambina a un concorso di bellezza, una scolaretta vestita da prima comunione, una specie di Barbie sposa anzi più Bratz che Barbie. Eppure avevo compiuto 25 anni, non 15. Sarà stata la mia insicurezza, la mia solita indecisione a farmi sentire così, ma ricordo che il giorno del matrimonio invece, come mai mi era capitato nella vita, mi sentii sicura, certa, bella, di quella bellezza che emana solo una donna sposata, come ci disse una notte don Fabio Rosini durante il giro delle Sette Chiese. Alla fine del pellegrinaggio, era passata da poco l’alba, arrivati a Santa Maria Maggiore, Don Fabio gridò: «Ora fratelli entrate dentro, inginocchiatevi davanti l’altare e chiedete una grazia al Signore. Una grazia bella grossa, non una cosetta! Sappiate che poi Lui ve la darà, quindi pensateci bene e sparate in alto. Forza! Coraggio!». Io entrai dentro, e feci come Don Fabio aveva detto, mi inginocchiai e dissi a Dio: «Signore, dammi un marito». Per questo quando i falsi consiglieri dell’ultima ora mi domandavano: “Ma sei sicura?”, “Guarda che sei ancora in tempo per cambiare idea!”, rispondevo che magari tentennavo su quale tovaglia scegliere, su come sistemare i capelli, ma sapevo di voler sposare Cesare, lui era la mia certezza, la promessa mantenuta dal Signore. Insomma, tornando a noi, avevo l’abito. Fatte le modifiche, fissate le spalline omerali, prese le misure, eccoci tutte e tre di ritorno dal negozio alla casa molto carina senza soffitto e senza cucina, come cantava ridendo nonno Lucio. Emozionata, appena lo vidi gli strillai nell’orecchio:
«Nonno ho scelto il vestito!»
«Cosa?»
«Ho scelto il vestito. È bianco, di organza, è bello, con un velo lunghissimo e la parte sotto somiglia a un fiore con tanti petali»
«Cosa Silvietta?»
«Assomiglia a un fiore!»
«Emilia!?!»
Ridevo, ridevano dalla camera da letto anche Emilia mia madre, e zia Ilaria impegnate a cercare il borsellino di nonna. Lo nascondeva, come nasconde tutto anche oggi, negli anfratti più oscuri coperto da un numero indefinito di buste a loro volta rivestite di maglie e foulard ben piegati. Insomma lo seppellisce, ma prima di farlo, lo ricopre, lo farcisce come una torta a strati.
Fu quel giorno, il giorno che scelsi il mio abito da sposa che scoprimmo che nonno era peggiorato. Lui sopportava il dolore in silenzio, possedeva questo dono, mentre a me basta un mal di testa per lamentarmi, una giornata storta. Nonno non faceva un fiato, non chiedeva aiuto. Quella volta però, mentre le sue figlie lo aiutavano a sdraiarsi sul letto, era praticamente cieco e abbastanza sordo, gli scappò un piccolo sussulto, assunse per un attimo un’espressione contratta e così notammo la pancia gonfia, come se all’interno vi fosse un gavettone d’acqua inesploso: ipertrofia prostatica.
Da lì a poche settimane i miei nonni si trasferirono da zia Ilaria e zio Claudio, suo marito. Furono accolti come una benedizione e a noi che gli abitiamo vicino, la notizia diede subito un gran sollievo, un senso di pace.
Consolatore perfetto,
ospite dolce dell’anima,
dolcissimo sollievo
La disponibilità dei miei zii, la loro apertura alla vita dei nonni, mi riempì di sicurezza e gratitudine. Credevo ci si aprisse solo alla vita che nasce, che viene al mondo, non a quella che muore, invece ho capito che aprirsi alla vita significa accogliere e non importa chi, per quanto tempo, conta farlo. Fu un regalo bellissimo averli in famiglia, un periodo veramente di grazia. Non saranno soli, mi ripetevo, non affronteranno la croce della vecchiaia, la prova più difficile della morte, nella solitudine. Nonno all’inizio mal sopportava il trasferimento, si lamentava di stare in sala hobby, era arrabbiato e chiedeva continuamente di tornare a Torre Maura. Odiava che mio padre, medico, e mia zia Silvana moglie del suo secondo figlio e infermiera, lo curassero. Promise più volte a bassa voce a mio fratello, che è forte e muscoloso, dei soldi perché lo prendesse in braccio e lo accompagnasse a casa: «Valerio, portami via da questo bunker» sussurrava. Scene da morire dalle risate, ve lo assicuro.
Di quei mesi mi ricordo tutto, e ci fu trambusto a volte, tra i problemi di salute, i farmaci, la flebo di nonno, l’Alzheimer di nonna, la confusione che il cambiare casa gli comportò e a volte l’ansia, ma un trambusto d’amore e sacrificio, che poi è la stessa cosa. Come quando ti nasce un figlio e tutto si sposta, si incastra, si muove su quelle nuove esigenze, perché la sua è una vita preziosa, un tesoro ricco che vale tanta fatica.
Nella fatica, riposo,
nella calura, riparo;
nel pianto, conforto
Immagino che lo proverò anche io quando avrò un bambino, se il Signore farà questo dono a me e a mio marito. E, come si fa per una nuova vita che viene al mondo, come fecero i Re Magi e i pastori con Gesù nella mangiatoia, tanti parenti e amici venivano il sabato e la domenica a far visita a nonno e nonna. Ci trovavano tutti lì, alcuni fissi come zia Ilaria mia madre e zia Silvana, e altri a caso, a turni sparsi, come me e gli altri nipoti, accompagnati chi dal fidanzato e chi, già sposato, dalla moglie o dal marito. Tutti riuniti nella sala hobby dei miei zii, il bunker, adibita ad appartamento di nonno e nonna, formavamo una famiglia sola, una ricchezza enorme.
O luce beatissima,
invadi intimamente
il cuore dei fedeli
Passavamo le giornate, i pomeriggi interi, a leggere le notizie del televideo a nonno nell’orecchio meno sordo, a convincerlo di mangiare e bere, a trascrivere su un quaderno i suoi pensieri, il suo lavoro, come lo chiamava lui, su: numeri, quadratura del cerchio, fisica, astrofisica, econofisica, geometria, e mille altre discipline. Quando perdeva il filo dei suoi ragionamenti, per togliergli un po’ della frustrazione che provava di fronte l’incapacità di concludere le sue riflessioni, correvamo a cercare qualche foglio vecchio, scritto da lui a macchina o al computer anni prima e gli riallacciavamo un concetto, una parola, dalla quale ripartiva a dettarci tutto contento: «Moooolto interessante!» diceva, come se noi gli avessimo servito un buono spunto, una chiave d’interpretazione da lui condivisa. Forse qualche volta se ne sarà pure accorto, non lo so, ma che importa, il nostro trucchetto era funzionale al suo benessere, ai suoi ultimi desideri.
Senza la tua forza,
nulla è nell’uomo,
nulla senza colpa
Fu un tempo fecondo per conoscerli, per succhiare da loro tutto il possibile, noi nipoti eravamo assetati: a nonno chiedevamo di raccontarci la sua vita, dall’infanzia alla giovinezza, dei suoi genitori, dei suoi sette fratelli. Volevamo sapere dell’incontro con la ragazza dalle lunghe trecce che sarebbe diventata sua sposa con i capelli corti però e di quanto fosse rimasto male di trovarla sull’altare così, senza la bellezza di quella chioma nera. Domandavamo strillando, affinché ci sentisse, i suoi ricordi di noi da piccoli e poi restavamo in un silenzio trepidante, rimproverando chiunque sbadatamente cominciasse a parlare, ad aspettare che lui da chissà quale cassetto lontano anni luce tirasse fuori aneddoti e parole. Chiacchieravamo con nonna sempre delle stesse cose, delle uniche che ancora ricordasse, finché annoiata non diceva: «ma quando andiamo via da quest’ospedale?» guardando verso il letto del marito e noi a ridere come matti. Spesso le facevamo ascoltare vecchie canzoni, li sentivamo così cantare tutti due presi dalla musica, con nonna pronta a correggerci quando, secondo lei, sbagliavamo il testo di qualche melodia: «Penso che un sogno così non ritorni mai più, mi dipingevo le mani e la faccia di blu poi d’improvviso continuo a sognare negli occhi tuoi belli che sono blu come un cielo trapunto di stelle!». Ancora risate.
Mentre zia Ilaria mamma e zia Silvana sistemavano, pulivano, cucinavano, accudivano, contavano gocce, giravano minestrine, filtravano tisane, cercavano cannucce. Li lavavano, gli cambiavano pannoloni e vestiti, mettevano e toglievano coperte, aggiungevano cuscini. Zia Ilaria radeva la barba a nonno, lo profumava e gli tagliava i capelli. Ve lo giuro, non li avevo mai visti tanto belli puliti e profumati.
Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina
Le settimane trascorrevano così, nella bellezza di quando la difficoltà finalmente si toglie la maschera e si scopre che è gioia. Guardavo i miei cugini, pronti ad aiutare, a sopportare, a dividere gli spazi con due nonni vecchi e malati dentro la loro casa ed ero tanto fiera. Mio zio Claudio, sempre paziente e discreto, mai scocciato dalla nostra assidua presenza ma soprattutto da quella degli anziani suoceri che rubavano tempo, fatica, e tenevano impegnata sua moglie. Ricordo che nonostante la difficoltà del momento andavano sempre insieme in chiesa agli incontri con la loro comunità e alla messa. Restava mia madre quelle sere e loro uscivano tranquilli, era l’unico svago che si concedevano ma solo ora capisco quanto prezioso.
Senza la fede, infatti, so che non sarebbe stato possibile tutto questo, senza Cristo la croce li avrebbe allontanati, schiacciati, li avrebbe fatti litigare, recriminare tra loro e con gli altri, ci avrebbe ucciso. A noi e ai miei nonni. Per questo loro soprattutto ringrazio e benedico, più che per tutto quello che hanno fatto, per aver continuato ad andare in chiesa, per aver obbedito, per aver detto sì.
Magari il senso del dovere li avrebbe spinti alle stesse azioni, ma non avrebbe suscitato la stessa generosità, lo stesso amore, non ci avrebbe dato una testimonianza di fede così grande.
Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
drizza ciò che è sviato.
Non credevo che a mio nonno potesse toccare una morte santa, mia zia aveva provato invano a chiedergli se desiderava parlare con un prete, confessarsi, la risposta era sempre un no secco e deciso. Eppure un pomeriggio avvenne il miracolo: era la settimana santa, c’era mia madre accanto a lui quando cominciò a gridare: «Ilaria, Ilaria» con il suo tono prima debole e poi più forte, mia madre gliela andò a chiamare subito, «Eccomi papà, cosa c’è, dimmi», rispose mia zia, e nonno continuò: «quel prete che mi dicevi, può venire qua a casa?» le disse serio, lei restò un attimo muta e guardò sua sorella con gli occhi sbalorditi e contenti, «certo papà, può venire anche oggi se vuoi», e lui «anche subito?» e lei «si, tra un quarto d’ora» le rispose, calcolando il tempo di fargli la barba e sistemarlo seduto sul divano, nonno aggiunse un po’ scocciato «E allora dai, chiamalo!». Lei chiamò Padre Rafael che arrivò con mia madre poco dopo. Stette da solo a parlare con nonno e poi chiamò tutta la famiglia e cominciò a spiegare, si rivolse soprattutto ai più piccoli: «Ascoltate ragazzi, quest’olio santo dovete pensare che sia come l’olio che i lottatori antichi si spalmavano addosso per sottrarsi alla morsa dell’avversario, ecco, io spalmo quest’olio su vostro nonno per rendergli più facile la lotta, per farlo più scivoloso così che possa sfuggire alla presa del demonio che soprattutto nel momento della morte vuole tentarci e si accanisce contro di noi. Invece con l’olio santo di Gesù Cristo potrà farcela, vincerà il diavolo, non cederà ai suoi inganni». Fu una celebrazione solenne, Padre Rafael chiamò le cose con il loro nome perché ai bambini si deve parlare così. Poi unse nonno con l’olio e, nonostante fosse giovedì o venerdì santo e in quei giorni non si potesse più dare la comunione fino a Pasqua, gliela diede, perché per i moribondi esiste una dispensa speciale.
Dona ai tuoi fedeli,
che solo in te confidano,
i tuoi santi doni.
Credetemi, non avrei mai pensato che mio nonno potesse trasformarsi a quasi novant’anni. Eppure si confessò, ricevette l’olio santo, mangiò l’eucarestia. Divenne mansueto, meno prepotente e buono. Dalla sua bocca sparì la bestemmia e nacquero baci, dal suo viso sbocciarono sorrisi e parole belle. Mio nonno cominciò a chiedere aiuto, a lasciarsi guidare, si umiliò, accettò la sua vecchiaia e morì. Era il giorno della prova del mio abito da sposa, il 24 aprile 2013.
Avevamo appuntamento alle undici in centro, dovevamo andare sempre io mamma e zia.
Temendo di far tardi mi avviai da sola e le aspettai lì. Non arrivavano e allora cominciai la prova, arrabbiata, con la sarta che mi metteva fretta e mi faceva sudare. A pensarci mi sento in colpa, che sposa sciocca! Finalmente mi chiamarono dalla metro, «dieci minuti e siamo da te». Entrarono nella sala accaldate, col fiatone, pronte a scusarsi: «Sai Silvietta, nonno stamattina non voleva fare colazione, andava più lento del solito e allora noi gli dicevamo – dai papà, sbrigati, ingoia, che Silvia ci aspetta per provare l’abito- e allora lui si sforzava e mandava giù». Quante volte avevo immaginato la mano rugosa di mio nonno sulla stoffa candida del mio strascico, sulle perline ricamate a mano del bustino. Lui mi avrebbe visto così, toccando i lunghi capelli e il velo, mi avrebbe guardato con gli occhi delle mani. Uscite dall’atelier mi girava la testa, faceva caldo, ero stanca. Mamma e zia Ilaria insistevano perché non andassi in redazione, svolgevo il tirocinio in una rivista e volevo finire le ore prima del matrimonio, per tranquillizzarle bevvi una bibita fresca, guardai con loro qualche vetrina e poi le salutai. Pochi minuti dopo la badante le chiamò, loro erano in metro: «Ilaria tuo padre non vuole alzarsi e non mi risponde» disse, «Insisti, forse non ti sente» le rispose, «No Ilaria tuo padre lo vedo strano, non è come gli altri giorni» concluse preoccupata, «Allora fai scendere Alberto e passamelo al telefono». Immagino che Alberto abbia fatto le scale quattro a quattro con la sua solita maldestra e premurosa velocità: «Mamma eccomi, nonno respira male» le disse, zia gli fece mettere il vivavoce e lo tranquillizzò, poi diede istruzioni su come aiutarlo a respirare meglio. Chiamò il suo primogenito che accorse dal lavoro e nel frattempo arrivò di ritorno da scuola Natan il terzo figlio, stettero tutti e due qualche passo dietro al letto di nonno forse per paura, la morte fa paura, solo Alberto gli rimase accanto a tenergli la mano e a seguire i suggerimenti della madre in attesa dell’ambulanza. Ripeteva con voce forte e sicura tutte le parole che zia gli indicava, le strillava affinché nonno, sempre più lontano, potesse sentirle: «Nonno siamo tutti qui, stai tranquillo, non temere! Non avere paura, non sei solo. Siamo con te! Coraggio, l’ambulanza sta arrivando». Io nel frattempo ero in redazione, non sapevo che nonno stava morendo, pensavo che lo avrei rivisto quella sera per raccontargli della prova, chiedergli come aveva dormito, se aveva visto ancora i bambini o come specificò solo a mio padre gli angeli: “Gli angeli Luigi sono venuti a prendermi”. Chissà perché quella parola la disse solo a lui, forse non voleva spaventarci, metterci tristezza, sapeva invece che suo genero, uomo di scienza, non gli avrebbe creduto e allora come per convincerlo gli confidò la verità, la buona notizia.
Dona virtù e premio,
dona morte santa,
dona gioia eterna.
«Mamma nonno respira a mala pena, fa fatica, non ce la fa più» disse Alberto poco dopo, e zia rispose: «Figlio mio fatti forza e digli il Padre Nostro». Lui obbedì e scandì bene la preghiera, poi disse l’Ave Maria: «Ave Maria piena di grazia il Signore è con te, tu sei benedetta tra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno Gesù. Santa Maria madre di Dio prega per noi peccatori…» la voce rotta dal pianto «… adesso e nell’ora della nostra morte amen». Piangevano anche mia madre e mia zia dall’altro capo del telefono: «Mamma nonno non respira più, è morto» gemette Alberto.
Io ci ho creduto che Maria è venuta a prenderlo nell’ora della sua morte.