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Quelle vittime nigeriane figlie di un dio minore

Boko Haram Article Albert Gonzalez Farran UNAMID – it

Albert Gonzalez Farran UNAMID

padre Giulio Albanese - pubblicato il 22/01/15

Intanto l'estremismo islamico rischia di diffondersi a macchia d’olio, dalla Somalia alla Nigeria

Per una cinica coincidenza del destino, proprio mentre la Francia piange le vittime di Charlie Hebdo e condanna fermamente il terrorismo, i famigerati Boko Haram hanno sterminato dello Stato nigeriano del Borno un numero indicibile di civili. L’ultima notizia battuta dalle agenzie di stampa parla di 19 morti e 18 feriti in un attentato suicida realizzato da una bambina di 10 anni, sabato 10 gennaio, al mercato di Maiduguri, capitale del tormentato Stato del Borno. 

Potrebbero, invece,  essere addirittura duemila i morti nell’offensiva, sferrata dagli insorti, tra il 3 e il 7 gennaio, contro la cittadina di Baqa e altri 16 villaggi limitrofi. Il dato davvero inquietante, a questo proposito, è la latitanza dell’esercito nigeriano che ha rifiutato lo scontro, lasciando la popolazione locale indifesa, come peraltro denunciato già in passato dalla società civile, abbandonando peraltro, nelle mani degli insorti, una base militare nei pressi di Baqa, con i magazzini strapieni di armi e munizioni. Si tratta di una spirale di violenza inaudita rispetto alla quale purtroppo la stampa internazionale sta continuano a fornire, in gran parte, una lettura univoca e parziale. La maggioranza delle testate giornalistiche colloca, infatti, la crisi nigeriana dentro la cornice del jihadismo più crudele, quello che sta imperversando sia sul versante Mediorientale come anche in altre parti dell’Africa Subsahariana, dalla Somalia alla fascia Saheliana. 

In effetti, vi sono, già da tempo, prove di un coinvolgimento nella crisi nigeriana del salafismo di matrice saudita, lo stesso che ha foraggiato alacremente Al Qaeda in giro per il mondo. D’altronde, gran parte degli aiuti che i Boko Haram hanno ricevuto in questi ultimi cinque anni provengono dai Paesi limitrofi. Inoltre, gli estremisti nigeriani sono stati affiancati, recentemente, da miliziani provenienti dal Mali, dalla Mauritania e dal Sudan. Sono proprio questi elementi che hanno consentito al movimento  “Jamà atu Ahlis Sunna Lidda’ awati wal-Jihad”, che in lingua araba vuol dire “Gente dedita alla propagazione degli insegnamenti del Profeta e al Jihad”, meglio noti come Boko Haram, di fare un salto di qualità, dal punto di vista bellico, in un conflitto decisamente asimmetrico rispetto al quale sia l’esercito nigeriano, come anche quello camerunese, sono in grave difficoltà. Eppure, l’avanzata di questi jihadisti è stata resa possibile, finora, grazie soprattutto ad alcune complicità interne al “sistema Paese”, sia nelle forze armate nigeriane come anche nel parlamento federale e nei governatorati del nord del Paese. 

Questo è il dato che solitamente la cosiddetta informazione mainstream negligentemente omette e che invece rappresenta la vexata quaestio per una risoluzione del conflitto. Ma proprio perché stiamo parlando del più popoloso paese dell’Africa Subsahariana, segnato dalla difficile coesistenza di oltre 250 etnie, le cui rivalità peraltro non si esauriscono nella contrapposizione tra il nord prevalentemente musulmano e il sud a maggioranza cristiana, è importante evidenziare le responsabilità determinate da una classe dirigente inetta che alla prova dei fatti detiene il potere assecondando logiche di potere clientelari e perverse.

L’attuale presidente, Goodluck Jonathan, originario del Sud del paese e portabandiera del People’s Democratic Party (Pdp), non si è assolutamente rivelato all’altezza del compito istituzionale conferitogli nelle elezioni del 2010. Una vittoria, la sua, che peraltro non è stata affatto gradita dalle oligarchie settentrionali del Paese, di fede islamica, che hanno visto, per così dire, ridimensionato il loro peso politico nell’ambito della federazione. Jonathan, infatti, appartiene all’etnia Ijaw, minoritaria a livello nazionale e di tradizione cristiana, ma che rappresenta la maggioranza della popolazione nella regione del Delta del Niger, ricchissima di petrolio e sotto il controllo delle multinazionali straniere. In questo contesto, il fattore religioso si sovrappone ad una competizione per il potere che rischia, di questo passo, di spaccare in due la Nigeria, facendo leva sulla contrapposizione etnico-religiosa tra gli hausa-fulani, musulmani del nord, e gli yoruba e gli igbo, cristiani del sud.

A questo proposito, va ricordato che furono proprio gli igbo i protagonisti del tentativo di secessione della regione sudorientale nel 1967, da cui scaturì la sanguinosa guerra del Biafra. Allora, proprio per evitare inutili secessioni e ulteriori spargimenti di sangue, l’unica strada perseguibile è quella di ridare credibilità al governo federale. Anche perché l’acutizzazione del conflitto nelle regioni settentrionali della Nigeria, in cui a pagare il prezzo più alto è la stremata popolazione civile è legata anche all’imminente competizione elettorale, in programma nei prossimi mesi. Jonathan non solo cerca la riconferma, ma vorrebbe – così almeno ha  promesso – bonificare le istituzioni federali, ridando credibilità al paese. In effetti, per quanto i Boko Haram siano estremisti pericolosissimi e abbiano come obiettivo dichiarato quello di fondare un nuovo califfato, imponendo la sharia (la legge islamica) a tutta la federazione nigeriana (attualmente è in vigore solo nei 12 Stati del nord), per fermare gli estremisti islamici occorre una leadership politica in grado di interagire positivamente con i paesi limitrofi e l’Unione Africana (Ua) nella lotta contro il terrorismo. Jonathan, almeno finora, ha dimostrato poca credibilità di fronte all’opinione pubblica per lo scarso impegno profuso nella lotta contro la povertà e la corruzione.

Tra l’altro, ha una forte propensione per il nepotismo ed è in cima alla classifica dei 10 capi di Stato più pagati nel 2014, secondo la rivista “People With Money”, con un fatturato stimato di 58 milioni dollari. Basti pensare che in occasione del matrimonio del suo primo figlio, lo scorso aprile, ha commissionato delle bomboniere molto costose per gli invitati: degli iPhone d’oro zecchino, con impressi i nomi degli sposi e la data delle nozze. Tutto questo sperpero di denaro mentre i Boko Haram imperversano impunemente nel suo paese. La comunità internazionale per quanto tempo ancora starà alla finestra a guardare? I paesi Occidentali, in particolare, devono trovare il coraggio di affrontare seriamente la questione, attraverso una lettura critica della globalizzazione che, soprattutto in Africa, nonostante gli investimenti stranieri nel settore degli idrocarburi, ha acuito la miseria delle popolazioni autoctone. La posta in gioco è alta se si considera che l’estremismo della Mezzaluna rischia di diffondersi a macchia d’olio, dalla Somalia alla Nigeria.

Un deterrente è rappresentato da nuove forme di governance che tengano conto del dibattito democratico, della partecipazione e non solo dei ricavi derivanti dallo sfruttamento del bacino petrolifero continentale. Proventi che quasi mai hanno generato, anche con il prepotente ingresso della Cina sul mercato, uno sviluppo sostenibile dei ceti meno abbienti. Ecco che allora, ad esempio, fare cooperazione in Paesi come la Nigeria, dovrebbe significare all’atto pratico, investimenti di risorse umane ed economiche nell’istruzione, soprattutto a livello universitario. Inoltre, sarebbe auspicabile che la lotta alla corruzione entrasse a pieno titolo nell’agenda del governo nigeriano, considerando che a tutt’oggi meno dell’1% della popolazione detiene il 75% della ricchezza nazionale.

Fin quando i proventi dell’oro nero finiranno nelle tasche di un manipolo di nababbi, con la complicità delle imprese straniere, le masse impoverite rappresenteranno il vivaio di ogni genere di estremismo. Dulcis in fundo, è curioso sapere, proprio da fonti della società civile, che nel Nord della Nigeria siano stati scoperti giacimenti petroliferi dai cinesi che, nella corsa all’oro nero in Africa, sono primatisti assoluti. Una cosa è certa: le vittime di Charlie Hebdo vanno onorate tanto quanto quelle del Borno che certa stampa – duole doverlo scrivere – sembra relegare come figli e figlie di un dio minore. 

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