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© Peter Bernik

Cinque Passi al Mistero - pubblicato il 23/12/14

Educazione è misericordia, per cui Dio non chiede di cambiare prima, ma ti viene incontro lì dove sei

di Franco Nembrini

Avevo 17 anni, e nonostante l’educazione cristiana ricevuta in casa si insediò in me il dubbio, lo scetticismo, insomma, andai in crisi, una crisi profonda, di cui soffrivo molto. La cosa che mi faceva soffrire maggiormente era che il nulla divorava ciò a cui tenevo di più, divorava mio padre e mia madre, i miei fratelli e i miei amici: era un sentimento di inconsistenza della realtà, mi franava tutto addosso.

Guardavo mia madre lavorare in casa e piangevo perché sentivo che qualcosa me la stava portando via, neanche il bene che le volevo reggeva, perdevano di consistenza tutte le cose che mi erano care. Vissi un anno o due in una crisi molto profonda, abbandonando evidentemente la pratica religiosa, che non mi diceva più niente, sfidando con cattiveria una mia sorella che nel frattempo aveva incontrato Comunione e Liberazione, dicendole: «Dimmi da che cosa ti avrebbe salvato il Salvatore, che cosa ti avrebbe redento il Redentore? Siete come gli altri, anzi peggio degli altri, soffrite e morite come gli altri: dove sta la salvezza? Da cosa ti avrebbe salvato? Quando esci la domenica dalla Messa cosa puoi dire di te stessa più di quello che posso dire io?».

Non poteva evidentemente dire allora (aveva 19 anni), non poteva rispondermi quello che oggi risponderemmo insieme: che il di più che Gesù ha portato nella vita è semplicemente l’io, l’io, una persona che prima non c’era, una coscienza di sé e delle cose che prima non c’era, e che era quello io stavo cercando, cosa era mancato nell’educazione che avevo ricevuto?

Era successo ai miei genitori quel che sarebbe accaduto al padre di una mia alunna qualche anno dopo. Vi racconto brevemente l’episodio.

Una volta è venuto a trovarmi il papà di una mia alunna (un po’ strana, un po’ fuori di testa), molto preoccupato e addolorato perché la figlia lo faceva tribolare. Suonò il campanello quella sera a casa mia, cenammo insieme, e alla fine, affrontando il problema che gli stava a cuore scoppiò a piangere, si tirò su la manica della camicia facendomi vedere le vene e, quasi urlando disperatamente, mi disse (siccome aveva capito tra me e sua figlia, un po’ di feeling era nato, ci si intendeva, insomma), mi disse, battendosi la mano sul braccio: io la fede ce l’ho nel sangue, ma non la so più dare a nessuno. Può farlo lei? Lei può lo faccia, per carità, perché io ce l’ho nel sangue, ma non la so più comunicare nemmeno a mia figlia».

In quel momento mi è venuta l’idea che il problema della Chiesa fosse il metodo, la strada, che tutta la genialità del contributo che don Giussani offriva alla Chiesa e al mondo era questo: la scoperta che la fede, tornando a essere un avvenimento presente, fosse finalmente dicibile, comunicabile.

Poi ho capito che tutto il dramma di quel genitore era questo: pensava che tra lui e sua figlia ci fosse una generazione di differenza e invece s’erano infilati tra lui e sua figlia cinquecento anni di una cultura che aveva negato tutta la sua tradizione e le cose di cui lui viveva, e che televisione, scuola, (ora bisogna aggiungere anche internet) – dal secondo dopoguerra in poi – avevano infilato tra lui e sua figlia.

Ecco cosa era mancato ai miei genitori e a quel padre: la consapevolezza di questa distanza e il metodo, la strada per superarla. E la si poteva superare solo riproponendo il cristianesimo nella sua elementare radicalità: una presenza viva, capace di illuminare le contraddizioni dell’esistenza in modo convincente. Non la soluzione dei problemi ma un nuovo punto di vista da cui affrontarli, non una teoria contrapposta ad altre teorie, ma, per dirla con Romano Guardini, «l’esperienza di un grande amore nel quale tutto diventa avvenimento nel suo ambito».

È il grande richiamo di Benedetto nel memorabile discorso di Verona alla Chiesa italiana: allargate la ragione, date la modernità per raccogliere tutto il positivo ma anche per denunciare le insufficienze di una cultura nichilista e relativista che si è costruita negli ultimi secoli e che per tanti aspetti si è rivelata nemica dell’uomo.

In quel periodo della mia vita è avvenuto poi l’incontro con don Giussani: folgorante.

Venne a casa mia. La mia povera mamma aveva un dolore e cioè che il primo dei dieci figli, che era stato in seminario, ne era uscito sull’onda della contestazione e aveva non solo abbandonato la pratica religiosa e la Chiesa, ma aveva fondato uno dei primi gruppi extraparlamentari dei nostri paesi, insieme ad altri sette ex-seminaristi.

Don Giussani venne a conoscere i miei genitori: confessò la mia mamma, che credo gli abbia parlato del suo dolore mentre mio fratello non era in casa quel giorno. La settimana dopo da Milano arrivò un pacco di libri per questo mio fratello che lui non aveva conosciuto. E con mio grandissimo stupore il pacco di libri, invece che contenere Bibbie o Vangeli, conteneva Il Capitale di Carlo Marx e altri libri di quel tipo.

Fu il giorno in cui ebbi il primo sospetto serio che Dio esistesse, perché solo Dio può fare una cosa così; ho avuto lì l’idea che l’altro nome dell’educazione sia misericordia, sia carità, sia quella cosa per cui Dio ti viene incontro lì dove sei: non ti chiede prima di cambiare, non ti chiede prima di fare qualcosa, è lì dove sei tu, con i tuoi gusti, con i tuoi interessi, col tuo temperamento, con i tuoi peccati.

Vedere Giussani che senza paura, senza venir meno a niente di sé stesso, regalava Carlo Marx a mio fratello perché sapeva che lui era lì, ecco, mi fece venire questa idea: che l’educazione è questa misericordia in atto, per cui Dio ci viene incontro lì dove siamo.

Insomma mi venne il sospetto che quell’uomo avesse a che fare con Dio, perché non mi avrebbe mai chiesto di cambiare prima di volermi bene: mi voleva bene cosi come ero. È la natura stessa dell’amore. Gratuità assoluta. «In questo sta l’amore: che Dio ci ha amati per primo, mentre eravamo ancora peccatori».

Questa identificazione dell’educazione con la misericordia porta con sé alcune conseguenze che mi sembrano decisive.

Innanzitutto che l’educazione non poggia su tecniche psicologiche pedagogiche o sociologiche. È l’offerta della propria vita alla vita dell’altro. È una proposta di vita esistenzialmente significativa e convincente che ha le sue radici nell’esperienza lieta certa del testimone. Se per educare fossero bastate le parole, dal cielo sarebbero piovuti Vangeli, invece Gesù Cristo è venuto, per essere compagno della nostra povera esistenza.

Se è così, l’azione missionaria del cristiano e della Chiesa non può che consistere in una coraggiosa testimonianza della fede là dove gli uomini vivono, i giovani consumano la loro giovinezza nella famiglia e nella scuola.

Non si può più immaginare di svolgere l’azione pastorale in ambiti chiusi, diversi dai luoghi di studio, di lavoro e di divertimento, ma bisognerà ricominciare a incontrare i nostri fratelli uomini là dove essi vivono con i loro interessi, i loro affetti, la loro intelligenza e operosità. Una fede che non si dimostrasse pertinente alla vita reale, che non si mostrasse capace di esaltare l’io, col cuore e l’attesa del singolo, non potrà mai suscitare curiosità e interesse e desiderio di seguire.

Il problema coi figli o con gli alunni non può essere solo quello di farli diventare cristiani, farli pregare e andare in Chiesa. Se ti poni così sentiranno questo come una pretesa da cui difendersi e da cui prendere le distanze.

Tutto il segreto dell’educazione mi pare che sia questo: i tuoi figli ti guardano: quando giocano non giocano mai soltanto, quando provocano o qualsiasi altra cosa facciano in realtà con la coda dell’occhio ti guardano sempre, e che ti vedano lieto e forte davanti alla realtà è l’unico modo che hai di educarli.

Lieto e forte non perché perfetto (tanto non lo crederanno mai, e come è patetico e triste il genitore che cerca di nascondere ai figli il proprio male), ma perché sei tu il primo a chiedere e a ottenere giorno dopo giorno di essere perdonato.

La domanda del perdono rende liberi, liberi anche di sbagliare, liberi dall’angoscia della “coerenza ad oltranza” della “correttezza ipocrita” che a lungo andare non regge. Chiedere perdono è perseguire un ideale con le nostre debolezze, questo ci rende sempre tutti figlioli prodighi.

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