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“Non arrenderti, rischieresti di farlo un’ora prima del miracolo”

Man walking to the light

© BEELDPHOTO/SHUTTERSTOCK

Meeting di Rimini - pubblicato il 12/12/14

Come rispondere alla situazione attuale che vede l’emergere di nuovi gruppi estremisti? Di cosa c’è bisogno oggi?

L'articolo è tratto dal Notiziario Meeting di novembre 2014​

di Maria Acqua Simi

Dice un antico proverbio arabo, caro sia ai cristiani sia ai musulmani: “Non arrenderti, rischieresti di farlo un’ora prima del miracolo”. E mai come oggi, in tutto il nostro mondo martoriato dall’emergere di nuovi gruppi estremisti in Nigeria, Somalia, Libia o Sahel, dall’avanzata dello Stato islamico in Siria e Iraq (un fenomeno che interessa tristemente anche l’Europa, con centinaia di persone partite per combattere nell’ISIS) beh ecco… mai come oggi c’è bisogno di questo miracolo. Un miracolo che non piova dal cielo, improvviso come un fulmine. Ma un miracolo chiesto al cielo, che sia reso possibile dalla buona volontà di molti, a diversi livelli. 

Una soluzione serve in fretta, soprattutto per quei milioni di cristiani perseguitati in tutto il globo. Allo scorso Meeting di Rimini lo hanno testimoniato in molti. A partire dal Custode di Terrasanta, padre PierBattista Pizzaballa, che ha aperto l’edizione appena passata del Meeting. E lo ha fatto dicendo che non sono le mere analisi politiche o sociali ad accompagnare un cammino di pacificazione. Piuttosto, “il potere del cuore”. 

“Credo che sia un errore limitarsi a una professionale analisi politica, sociale e storica di quanto sta avvenendo senza uno sguardo religioso, redento, che aiuti a leggere e interpretare gli eventi senza tuttavia lasciarsene travolgere. I due ambiti sono necessari l’uno all’altro. Abbiamo bisogno di esperti che ci aiutino a comprendere i radicali cambiamenti a cui stiamo assistendo dal punto di vista politico, economico e sociale. Ma abbiamo anche bisogno di uno sguardo alto, ampio, libero da paure e complessi”.

La crisi in Medio Oriente
Una delle aree più colpite dalle persecuzioni è infatti quella mediorientale. Sono le storie raccontate nei bellissimi reportage proposti al Meeting dal giornalista e inviato di guerraGian Micalessin. Il dramma di quelle terre lo ha evidenziato bene, ancora una volta, padre Pizzaballa nel suo intervento, quando spiegava: 

“Egitto, Israele e Palestina, Libia, e soprattutto Siria e Iraq sono al centro di un profondo cambiamento dalle ancora non chiare prospettive. Quella sorta di stabilità che per quarant’anni aveva caratterizzato i rapporti (o non-rapporti) in questi Paesi è definitivamente conclusa, e nuovi equilibri che ancora non riusciamo a definire si stanno prospettando, fonte di preoccupazione per molti, soprattutto per la piccola comunità cristiana e le altre minoranze. Il Medio Oriente che abbiamo conosciuto nel ‘900, quello nato dalle rovine del vecchio impero ottomano, dalla fine dei diversi colonialismi e della nascita degli stati nazionali, è finito. Inizia un nuovo periodo, la cui direzione però non siamo ancora in grado di comprendere. Inizialmente quella che è stata battezzata “la primavera araba” ha suscitato tanto entusiasmo: le piazze fanno cadere i dittatori che da decenni dominano incontrastati; finalmente il popolo, e i giovani in particolare, diventano protagonisti della vita dei loro Paesi e fanno la storia. Tutti, senza distinzioni di appartenenze, partecipano a questo momento importante. Questo processo, tuttavia, è stato in un certo modo “sequestrato” da movimenti e partiti religiosi che hanno stravolto la natura di questa primavera trasformandola in una vera e propria lotta di potere tra diverse componenti religiose e sociali del Medio Oriente, in particolare nella lotta tra sciiti e sunniti”. 

E, ancora: “Molto più che in Europa, il Medio Oriente è sempre stato il crogiolo di differenze religiose. Ebraismo, cristianesimo e islam hanno il loro cuore e le loro radici in Medio Oriente. Ciascuna di queste fedi ha poi conosciuto divisioni e sviluppi interni vivacissimi: sunniti, sciiti, cristiani ortodossi, copti, siriaci e tantissime altre comunità sono sorte lungo i secoli, rendendo il Medio Oriente – unico nel suo genere in tutto il mondo – un luogo di convivenze. Va detto che le convivenze non sono mai state facili e le persecuzioni lungo i secoli non sono mancate. Ma non si è mai assistito a una “pulizia religiosa” del tipo a cui assistiamo oggi”.

Tre testimoni autorevoli di tutto questo, presenti al Meeting, sono stati il giornalista de La Stampa Domenico Quirico, S. Ecc. Mons. Shlamon Warduni dall’Iraq e Mons. Abou Khazen, vescovo di Aleppo in Siria (in visita al Meeting). Tra Iraq e Siria, la situazione è tragica: milioni di sfollati, monasteri e chiese antichissime distrutte, manoscritti di oltre 1500 anni andati perduti o venduti per finanziare i traffici illeciti dell’ISIS (come ha testimoniato l’archeologo Giorgio Buccellati). Ma soprattutto, un’umanità dolorante, ferita, schiacciata. “Ad Aleppo l’unica cosa rimasta in piedi è l’università”, ci ha raccontato camminando per la Fiera di Rimini mons. Abou Khazen. “Ma è un’università dove studiano sia cristiani sia musulmani. E questi giovani un giorno ricostruiranno la Siria, noi ne siamo certi”. 

Di ben altro tenore l’intervento di Quirico, rapito in Siria lo scorso anno e rilasciato solo dopo mesi dopo. Il giornalista ha inquadrato bene la sofferenza delle centinaia di migliaia di persone che hanno perso tutto. Lo ha fatto lanciando un duro j’accuse, contro i silenzi colpevoli di un Occidente troppo spesso impegnato a guardare altrove. “Allora dov’è la chiave? E’ nella straordinaria, orribile quotidianità del dolore. Il dolore senza sangue, il dolore come incontro quotidiano di 22 milioni di persone che vivono in Siria da quattro anni, 4 milioni sono fuggiti o vivono ai margini di questa tragedia. La quotidianità della sofferenza, l’incontro ogni minuto, ogni secondo della propria vita con il dolore, con la morte, con il sangue, con la ferocia: questa è la tragedia siriana. Allora riprendo una cosa che è scritta in fondo a questo salone: “Verso le periferie del mondo, il destino non ha lasciato solo l’uomo”. No! No, non è così, non è così, purtroppo! Il destino non lo so, ma noi, noi, l’Occidente, l’Europa, gli Stati Uniti, abbiamo lasciato solo l’uomo! Abbiamo lasciato solo quella vecchina, abbiamo lasciato soli gli altri 22 milioni di siriani, abbiamo lasciato soli i cristiani dell’Iraq, abbiamo lasciato soli i cristiani nel Nord della Nigeria, abbiamo lasciato soli esattamente vent’anni fa i rwandesi del genocidio, i somali, abbiamo lasciato soli gli uomini che vivono nelle periferie del mondo. Questa è la nostra colpa!”. 

In questo drammatico contesto la Chiesa continua ad operare per i civili, ormai allo stremo. Ne ha dato testimonianza al Meeting anche il padre gesuita Ziad Hilal, coordinatore dei centri per i bambini del Jesuit Refugee Service ad Homs, che ha denunciato anche il silenzio dei media sulla Siria. Un grido uguale a quello di Mons.Warduni, testimone della fuga e delle uccisioni di migliaia di cristiani, costretti ad abbandonare la piana di Ninive, in Iraq, “dove vivono da duemila anni”. Alla fine del suo intervento al Meeting, commosso, Warduni ha chiosato: “Tutti abbiate pietà di noi, seminate la pace e la moralità, l’amore per Dio e per il prossimo e questo salverà il mondo. Gridiamo a Gesù sulla croce: Dio nostro non ci lasciare! Gridiamo al Santo Padre e lo ringraziamo tantissimo per i suoi aiuti morali e materiali e diciamo in nome di tutti: non lasciarci Santità! A tutti i sinodi delle Chiese del mondo, a tutte le nazioni chiediamo di cooperare insieme per seminare la pace, l’amore all’umanità e sradicare il male. Voi che ascoltate sosteneteci e il Signore vi benedica. Con questa fede viviamo e con essa seminiamo l’amicizia tra i popoli e saremo testimoni della libertà”. 

Una situazione, quella delle persecuzioni in Medio Oriente, che chiede prese di posizioni chiare, come aveva ricordato padre Pizzaballa, solo pochi giorni prima: “È necessario che tutte le comunità religiose alzino la voce contro questo abominio. Il mondo islamico ha cominciato a reagire, finalmente, ma onestamente, dobbiamo dire che ci è sembrato assai timido nella denuncia. (…) Il dialogo interreligioso in questo momento non può prescindere da una denuncia comune e forte di quanto sta accadendo. Lo richiede la gravità del momento e la necessità di continuare a vivere e dialogare insieme”. E infine: “Abbiamo bisogno di tutto in Medio Oriente: aiuti finanziari, militari, politici, mediazioni, sostegno… ma soprattutto di credere ancora che è possibile volersi bene. Le testimonianze ci dicono che, nonostante tutto, grazie ai piccoli, questa forza vive ancora”.

Asia e Africa
Altri due testimoni coraggiosi dell’amore alla libertà, nonostante le persecuzioni, sono stati due grandi amici del Meeting di Rimini, il politico e medico pakistano Paul Bhatti e Mons. Ignatius Kaigama, Arcivescovo di Jos e presidente della Conferenza episcopale nigeriana. 

Bhatti è fratello maggiore di Shahbaz, ucciso quando era ministro per le minoranze religiose in Pakistan, mentre si batteva contro un’ingiusta legge sulla blasfemia. La stessa legge per la quale da ormai quattro anni una giovane mamma cristiana, Asia Bibi, si trova incarcerata senza giusto processo ed ora è stata condannata alla pena di morte. Bhatti ha ricordato in maniera commovente il sacrificio di Shahbaz. 

“Io volevo che lui venisse via dal Pakistan, rischiava di essere ucciso. Eppure mi diceva: "Se voi mi portate via, mi viene bloccata quest’opportunità di difendere i cristiani del Pakistan e di esprimere la mia Fede: questa è la mia morte”. Questo mi ha commosso. Io sono stato incapace di convincerlo, addirittura lui ha cercato di convincermi a tornare in Pakistan, perché avevano bisogno di me. Io ridendo: “Guarda, io sto ben qua, come puoi pensare di chiamare tuo fratello dal Paradiso all’Inferno”. E lui: “La strada per il Paradiso parte dal Pakistan”. 

Questa è la sua convinzione, questa è la sua fede, su questo lui non ha mai negoziato. Sapeva che con questo suo percorso rischiava la vita, ma lui, come le sue testimonianze spirituali dichiarano apertamente, era pronto per questo, era pronto a morire, però non era pronto a rinunciare a questa sua battaglia, a questa sua fede”. La stessa fede che regge i cristiani che in Nigeria (e in Kenya, Somalia e nel Sahel) vengono perseguitati dai miliziani islamisti di Al Shabaab, uno dei gruppi legati dal Al Qaeda. Lo stesso gruppo che mesi fa ha rapito oltre 270 liceali obbligandole a convertirsi e che saccheggia e uccide sistematicamente dal 2007 in tutta l’area. 

Ha raccontato Mons. Kaigama: “Comunque non ci sono solo cattive notizie. Ci sono degli sviluppi che comunque ci danno speranza. Per esempio i moderati fra i cristiani e musulmani stanno cercando di incontrarsi sempre più in modo tale da mettere a punto delle strategie per evitare che Boko Haram continui a distruggere la Nigeria. L’arcidiocesi di Jos, di cui io sono appunto responsabile, promuove iniziative di diverso carattere. C’è una scuola per esempio per giovani cristiani e musulmani che forma questi studenti alla cultura del dialogo e della pacificazione ed eroga una formazione di carattere professionale. Insegniamo a questi studenti a convivere per due anni, dopo di che, quando escono dalla scuola, diventano ambasciatori di pace essi stessi”. 

Si riparte da qui. Si riparte dal “potere del cuore”. Un potere che è alla portata di tutti. Di ciascuno di noi.

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