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Ebrei, cattolici e musulmani uniti nel “no” all’eutanasia e all’accanimento terapeutico

Sick lying senior man with caring wife at home

© CandyBox Images/SHUTTERSTOCK

Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 05/12/14

Confronto al Gemelli tra medici di religione islamica, cristiana e ebraica. Occorre «stabilire una linea di confine»

Un confronto interreligioso e interdisciplinare tra medici di credo diverso ed esponenti religiosi dell’ebraismo, del cattolicesimo e dell’islam quello che si è svolto al Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” sul tema “Interreligious dialogue on the End of Life”.  

Le tre religioni monoteiste hanno ribadito il loro “no” all’eutanasia, al suicidio assistito ma anche il “no” all’accanimento terapeutico perché curare non significa prolungare le sofferenze. Anche se poi chi si è alternato al microfono ha riconosciuto la difficoltà a volte di stabilire la linea di confine tra cura e accanimento (Quotidianosanità.it, 4 dicembre).

EUTANASIA E SHARIA
L‘Islam, riporta Agensir (5 dicembre), non ammette l‘eutanasia «perché la vita ha un valore incondizionato. Nel caso di pazienti in terapia intensiva, la sharia, integrata da principi morali-religiosi ai quali si aggiungono i principi di autonomia del paziente, consente la sospensione dei trattamenti solo per evitare l‘accanimento terapeutico e quando il medico è certo che la morte sarà inevitabile», ha precisato Fekri Abroug, medico dell‘Università di Monastir (Tunisia). 

DIO DA' LA VITA E LA MORTE
Per Yahya Pallavicini, vicepresidente della Coreis (Comunità religiosa islamica italiana) occorre «sacralizzare la vita e umanizzare la morte. Nel diritto islamico – ha spiegato – non sono tollerabili né l’omicidio né il suicidio. È Dio a dare sia la vita sia la morte, nessuna delle due può essere considerata un male». E proprio nell’orizzonte del dialogo, Pallavicini ha rilanciato la sua proposta all’allora ministro della Salute Balduzzi di istituire una commissione interdisciplinare con professionisti della salute e referenti religiosi, «perché attraverso il confronto tra competenze diverse si può trovare una soluzione metodologica alle sfide pratiche del fine vita». 

SEPARARE ACCANIMENTO E OMISSIONE
A ribadire l'importanza di «definire la linea sottile che separa l‘accanimento dall‘omissione terapeutica», evidenzia ancora l'agenzia dei vescovi, è stato anche Riccardo Di Segni, radiologo e rabbino capo di Roma. «Siamo tutti d‘accordo sul rifiuto dell‘eutanasia e dell‘accelerazione della morte di un paziente, così come sul rifiuto dell‘accanimento terapeutico», ma manca «una convergenza su questioni ‘secondarie‘, che poi secondarie non sono affatto» come quella dell‘idratazione e dell‘alimentazione. 

L'UMILTA' DEI MEDICI
Sulla stessa linea il rabbino Avraham Steinberg, dello Shaare Zedek Medical Center of Jerusalem: «Come medici – ha scandito – dobbiamo essere molto più umili quando decidiamo per gli altri», evidenziando che «la legge israeliana ha cercato di trovare un punto di sintesi tra il valore della vita e il principio di autodeterminazione pur negando l’eutanasia attiva e il suicidio assistito».

FORMAZIONE SUL FINE VITA
Alberto Giannini (Ospedale maggiore Policlinico di Milano) ha sostenuto la necessità di un «duplice percorso culturale»: l’inserimento delle cure di fine vita nel percorso formativo delle scuole di specialità e l’apertura dei reparti di terapia intensiva ai familiari «la cui presenza è oggi non più di due ore al giorno in caso di adulti e cinque per i bambini». Per Andrea Vicini, gesuita del Boston College School of Theology, «la tecnologia medica deve concentrarsi sul Magnetic Resonancce Imagining” per avere il massimo delle informazioni sullo stato vegetativo, sul livello di coscienza del paziente e sulle sue possibilità di recupero», questioni su cui «sappiamo ancora molto poco». 

PRINCIPI COMUNI
Nella diversità delle religioni, «i principi fondanti condivisibili sono comuni», fa notare a conclusione dell’incontro Massimo Antonelli, direttore del Centro di ateneo per la vita e della Siaarti, secondo il quale «si deve lavorare insieme per poter avere un atteggiamento, un comportamento che sia uniforme anche su ‘casi specifici’ che travalichino le differenze regionali».

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