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Quanto servirebbe oggi un nuovo Chateaubriand

Chateaubriand

© Public Domain

L'Osservatore Romano - pubblicato il 03/12/14

Due traduzioni in italiano del «Genio del cristianesimo» ne rinnovano l’importanza

di Giuliano Zanchi

Molti anni dopo la pubblicazione del "Genio del Cristianesimo", Francois René de Chateaubriand in un passaggio delle Memorie d’oltretomba avrebbe ricordato, con amichevole senso di rivincita, l’avventata previsione di Madame de Staël. «Madame de Staël si sbagliò quanto al futuro dei miei studi religiosi: l’opera le fu portata con le pagine da tagliare; passò le dita tra i fogli, cadde sul capitolo La Virginité, e disse ad Adrien de Montmorency, che era con lei: “Ah, mio Dio! il nostro povero Chateaubriand! Farà un fiasco completo!». Quella sentenza anticipatrice in effetti, forse più un desiderio che una previsione, si sarebbe rivelata clamorosamente mancata. 

Il successo dell’opera fu clamoroso. Cinque volumi tirati in quattromila esemplari andarono esauriti nel giro di un anno. Il numero delle ristampe si rivelerà notevole. Un anno dopo la prima pubblicazione erano già pronte le traduzioni in tedesco, inglese, italiano, spagnolo e russo. Persino un caso di contraffazione editoriale presso una stamperia di Avignone. 

A cose fatte, dall’alto di un successo di opinione che fece di quei cinque volumi il libro più letto in Europa nei primissimi anni dell’Ottocento, si rivela più indovinata l’eccitata testimonianza di Madame Hamelin, nata Jeanne Geneviève Fortunée Lormier-Lagrave, detta anche la Merveilleuses ai tempi del direttorio, una tra le molte figure femminile capaci di avere un ruolo anche determinante nelle vicende sociali della Parigi del suo tempo, secondo la quale l’accoglienza dell’opera si era venata di un’attesa vicina all’isteria: «Quel giorno — racconta Mme Hamelin — a Parigi nessuna donna dormì. Ci si strappava dalle mani una copia e ci si rubava un esemplare. Che risveglio! Che confusione, e che palpiti! Ma è questo il cristianesimo? chiedevano tutte; ma è davvero grazioso! E chi è che lo spiega così?». 

Ci avrebbe pensato uno come Sainte-Beuve, caustico e tagliente come sempre, definendo il Genio del Cristianesimo «un colpo di teatro e un colpo d’altare», a inaugurare il lungo discredito dell’opera e del suo autore, confinati per interi decenni fra le note di margine della cultura liceale o nelle esangui riduzioni della letteratura devozionale.

Sorprende quindi felicemente il ritrovato interesse per il tragitto umano e per l’opera letteraria di una figura che avendo dominato la sua epoca ha segnato in qualche modo anche la nostra, che giustamente torna a riappropriarsi della sua eredità con gli strumenti più adeguati alla sua comprensione. A poca distanza dalla traduzione per Bompiani (2008), a cura di Sara Faraoni, compare in questi mesi una nuova edizione del Genio del Cristianesimo (Torino, Einaudi, 2014, pagine 880, euro 90 ) a cura di Mario Richter. Due traduzioni italiane nel giro di pochi anni sono davvero il segno di una attenzione che si rinnova.

Il Genio del Cristianesimo veniva pubblicato, con perfetto tempismo, il 14 aprile 1802, quella giusta manciata di giorni in anticipo sui solenni vespri cantati in Notre-Dame per celebrare l’atteso concordato tra la Repubblica di Napoleone e la Chiesa francese. 

Chateaubriand, giovane intellettuale in cerca di gloria, dopo un trasognato viaggio nelle Americhe e qualche anno di sofferto esilio a Londra, tornato in patria nei primi mesi del secolo, sapeva di potersi adagiare nel letto riscaldato di una opinione stanca di sangue e ideologia. Da bravo imprenditore Chateaubriand aveva fatto precedere la pubblicazione del Genio del Cristianesimo dall’anteprima di Atala, un piccolo romanzo ambientato nelle Americhe, opera «civetta» destinata a sondare il terreno del gradimento pubblico. Il pubblico aveva risposto con vero e proprio ardore collettivo. 

Attraverso il cupo catalogo delle passioni contenute in questo «romanzo breve», accolto dai Ginguené, dai Morellet, dagli Chénier — vale a dire dagli eredi di Voltaire e di Diderot — «con un immenso scoppio di risa», Chateaubriand aveva esaudito quel bisogno «di sensazioni, di ritmo, di colore» di cui il pubblico del 1801, stremato da almeno un decennio di aridità, sentiva il bisogno. Per esaudire queste intense esigenze collettive il giovane scrittore inventava una lingua «sinestetica», immaginosa, prorompente, capace di espandersi, oltre i limiti stessi della convenzione linguistica, al di là dei rigori tonali del classicismo letterario, in cerca di una multipolarità sensoriale della parola. Ma l’invenzione della nuova lingua, emotivamente straripante e sensuale, permetteva al fortunato libretto di tematizzare una inquietudine di fondo, il profilo di un oggetto innominabile, la tesa linea d’ombra di un infinito del sentimento, simile per natura agli sconfinati paesaggi d’America che aveva visitato. 

L’espressione di un sentimento capace di contenere tutto, anche l’oscuro del desiderio, le pieghe nascoste fra il velluto dell’anima, l’inumano che abita l’umano, tutto quanto insomma l’astratto e ordinato chiarore del classicismo letterario dimostrava di aver ignorato. Della portata della propria invenzione Chateaubriand dimostrerà di essere sempre più che consapevole: «In me cominciava, con la scuola cosiddetta romantica, una rivoluzione nella letteratura francese».
Questa rivendicazione di un’innovazione linguistica collegata tuttavia all’incremento di una forma della conoscenza, tale da non ridurre, come molti ancora vorrebbero ritenere, quell’esuberanza stilistica un estetismo di nessun interesse, sarebbe stata ancora più esplicita per riguardo alla concezione del Genio del Cristianesimo.  

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