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Non serve impressionare Dio

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Carlos Padilla - pubblicato il 27/11/14
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Ci costa riconoscerci deboli, assumere i nostri errori, baciare le ferite, volgere lo sguardo a Dio e chiedere aiutoSiamo figli della misericordia. Siamo amati da un Dio persona che si ferma di fronte alla nostra indigenza. Spesso ci impegniamo a mostrare a Dio i nostri talenti, quanto facciamo bene le cose.

Pretendiamo di giustificare il suo amore con le nostre opere. Ci sforziamo di raggiungere l'apice con i nostri sforzi, ma alla fine tutti, chi più chi meno, sperimentiamo la fragilità. In quei momenti non ci resa che aggrapparci all'amore misericordioso di Dio.

Diceva padre Josef Kentenich: “Coltiviamo la nobiltà dei nostri sentimenti, coltiviamo la gratitudine ripassando giorno e notte i doni che Dio ci ha fatto, 'nuotando' nel mare della sua misericordia. È molto importante farlo, perché saremo bambini nella misura in cui sappiamo di essere amati”.

Saremo bambini quando impareremo a guardare il suo amore che ci cerca. Quando impareremo a scoprire la sua cura. Quando non ce ne renderemo conto. Quando cadremo e ci rialzeremo perché la sua mano ci sostiene.

Siamo bambini quando sperimentiamo quell'amore immeritato. La grazia del suo amore. In quei momenti possiamo confidare in modo definitivo, perché un amore di questo genere non ignora mai i miei passi.

Il bambino non dubita mai dell'amore del genitore. Lo accoglie, si rallegra e abbraccia il suo desiderio. Ma a volte ce ne dimentichiamo, come diceva padre Kentenich: “A volte non progrediamo nella nostra vita spirituale perché non abbiamo l'impulso verso l'infinito. E non lo abbiamo perché siamo troppo pieni di noi, ci aspettiamo troppo da noi stessi. Dio ha una debolezza: non può resistere alla debolezza conosciuta e riconosciuta dei suoi figli”.

Ci costa riconoscerci deboli, assumere i nostri errori, baciare le ferite. Ci costa volgere lo sguardo a Dio e chiedere aiuto. In generale ci costa chiedere aiuto. Ci aggrappiamo al nostro potere. Crediamo di poter fare tutto da soli, ma non ci riusciamo.

Procediamo nella vita esigendo il pagamento per ciò che facciamo. Quando cadiamo ci sentiamo piccoli, ma poi incolpiamo gli altri, le circostanze, Dio e la cattiva sorte. Non leviamo lo sguardo supplichevole a Dio.

Spesso non siamo segni della misericordia divina perché non abbiamo toccato la misericordia di Dio e degli uomini nella nostra vita.

Pensiamo che ciò che abbiamo sia meritato, frutto del nostro sforzo e della nostra capacità. Non guardiamo la nostra vita con umiltà, e allora è difficile guardare con misericordia.

Quando riceviamo un regalo, un dono, pensiamo di non meritarlo. Ed è vero, i regali sono grazia, e non li meritiamo mai. La verità è che non incarniamo quell'immagine del buon pastore a cui diamo tanto valore.

Una persona pregava: “Quell'incapacità che ho di misericordia, di vedere che mi è impossibile guardare con il tuo sguardo, perché sono piccola, non lo so… Voglio comprendere, voglio amare, voglio non ferire, voglio dimenticare e donare e non posso essere ciò che desidero”.

È questo il dolore che sboccia quando non siamo capaci di amare con un amore misericordioso. Ci fa male giudicare e non amare. Ci fa male condannare e allontanare coloro che soffrono. Non guardiamo con misericordia.

Non abbiamo l'amore di Dio nei nostri gesti. Quell'amore che si abbassa e solleva chi è caduto, che crede di nuovo in colui che ci offende, che torna a confidare in colui che ci ha delusi. Quella misericordia è una grazia di Dio che supplichiamo.

Vogliamo essere immagine del buon pastore. Vogliamo vivere ancorati al suo cuore di padre, ma ci manca l'umiltà, l'umiltà di colui che ha vissuto il fallimento, non è arrivato alla cima e si è saputo amato profondamente da Dio nelle sue cadute.

Lo sguardo di colui che non è orgoglioso delle sue azioni straordinarie, che non ha realizzato grandi gesta, che non ha alzato le braccia in segno di vittoria, ma vive felice perché nella sua vita vede più la mano di Dio che la propria. Non si gloria dei suoi successi, ma li guarda sorpreso.

È l'atteggiamento di colui che è andato ed è tornato, che ha baciato il trionfo e ha ricominciato. Senza credersi importante, senza pensare che sia tutto frutto della sua dedizione generosa. Guardare con misericordia è proprio dei figli della misericordia. Quelli che hanno toccato Dio camminando al suo fianco, guarendo le ferite.

La nostra missione è la realizzazione del regno di Cristo qui sulla terra. Egli regna. È chiamato a regnare in tutti, in tutta la terra, e il suo è un regno povero e umile. Un regno di servizio, di pace, di giustizia, di libertà.

Mi piace pensare al modo di regnare che ha Dio. Cerchiamo il potere da quando siamo bambini. Vogliamo avere potere. Vogliamo avere dominio sulla vita. Ci piace comandare ed essere serviti.

Ma il potere di Cristo è annientamento. È umiliazione, abbassamento. È povertà e umiltà. È semplicità e silenzio. Dove Egli regna non ci sono grida, non c'è violenza.

Diceva padre Kentenich: “Dobbiamo credere al Regno di Dio, alla sua realizzazione in cielo, ma non abbiamo anche il compito di aiutare a edificare, nella costituzione del Regno di Dio, della Città ideale, già qui sulla terra, con l'aiuto di tutte le nostre forze, anche in questi tempi difficili che attraversiamo?”

Il Rego di Dio si costruisce su vari pilastri: la verità, la giustizia, la pace, l'amore, ma tutti questi conducono a un'esperienza comune con cui inizia tutto: l'esperienza del bambino che confida, che si abbandona, perché sa di essere amato dal pastore.

In questo mondo regnano la superbia, l'apparenza, la menzogna, l'odio, la violenza. È un regno in cui il potere ce l'ha chi ha di più, chi trionfa di più. Un regno in cui il successo è l'unica cosa che vale la pena. Un mondo in cui ci si può vendere anche l'anima per avere ciò che si desidera.

Cosa desideriamo? In questo mondo è il desiderio a governare. Ciò che desidero comanda. Se non lo ottengo in modo immediato, sperimento la frustrazione.

E l'uomo di oggi ha ben poca tolleranza nei confronti della frustrazione. È abituato ad avere ciò che desidera, a raggiungere la meta programmata, a realizzare ciò che sogna.

Dimentica ciò che è importante: “Il successo della vita non è vincere sempre, ma non darsi mai per vinto”. Perché i successi sono passeggeri. E anche i fallimenti. Tutto passa, la vita va avanti.

Ci costa vivere con la paura di perdere: “Mi fa paura perdere ciò che ho. Provo panico nei confronti di quella solitudine in cui il vento fa male, in cui la calma diventa inquietudine. Voglio abbracciarti, Signore, per non provare la paura”. La paura di perdere, di non riuscire, di non essere all'altezza.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]