L’attributo «cattolico» è una caratteristica della sola Chiesa?"Dio non è cattolico". Cosa vuole dire questa espressione utilizzata dal cardinale Carlo Maria Martini in suo volume del 2008 e da Papa Francesco nel corso di una intervista con Eugenio Scalfari? Lo abbiamo chiesto al teologo padre Gianluigi Pasquale OFM Cappuccini, che è docente presso la Facoltà di Sacra Teologia della Pontificia Università Lateranense e dirige tre Collane editoriali: «Filosofi Italiani del Novecento» (Lateran University Press, Città del Vaticano), «I Mistici Francescani» (Edizioni Francescane di Padova) e «Le Lettere di Padre Pio» (Edizioni San Paolo di Cinisello Balsamo, Milano).
Nelle “Conversazioni notturne a Gerusalmme” il cardinale Carlo Maria Martini sostiene che Dio possa anche non essere tradizionalmente “cattolico”. In che senso?
Padre Pasquale: L’attributo «cattolico», che a partire dal semantema greco è da intendersi «secondo il tutto, katà (secondo) olòn (il tutto)» costituisce una delle quattro caratteristiche che definiscono la Chiesa in quanto tale: in ordine essa è una, santa, cattolica e apostolica. A voler essere filologicamente precisi, dunque, l’attributo «cattolico» non può essere applicato al nome di Dio, non essendone una sua declinazione. Detto in altre parole, l’aggettivo «cattolico» inerisce alla Chiesa, non a Dio, come l’essere «frizzante» inerisce, eventualmente, all’acqua, non alla roccia. Qui, a suo tempo, lo Stagirita avevo semplificato cose, che noi vorremmo adesso troppo ingenuamente rendere complicate. Ma non lo sono. Pena creare un ossimoro. Nel pregevole volume del compianto Cardinale Carlo Maria Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, a cura di Georg Sporschill (Mondadori 2008), poi, non viene mai affermato che «Dio possa anche non essere […] cattolico». Al contrario, lo scrivente legge: «Gli uomini si allontanano dai […] dieci comandamenti e si costruiscono una propria religione; questo rischio esiste anche per noi. Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo» (pp. 66-67). La mens del porporato torinese è chiara: chi si allontana dall’osservanza dei dieci comandamenti – che stando alla mentalità ebraica assicurano all’uomo la siepe sicura restando all’interno della quale si è salvi – «de-finisce» Dio, limitandolo, alla propria, forse miope, visione; in tedesco, per gli addetti ai lavori, si direbbe alla propria «Weltanschauung» (visione del mondo). Ora, proprio perché il Dio di Gesù Cristo «è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo» (p. 67), egli desidera rendersi presente in ogni creatura per il solo fatto che essa è in carne – alla pari del figlio di Dio – cosa che avviene grazie dalla «cattolicità della Chiesa» la quale, infatti, abbraccia tutte le razze, culture, diversità, tempi e stagioni. Come ho avuto modo di dimostrare durante una conferenza che ho tenuto alla sezione romana del C.I.P.A. (Centro Italiano di Psicologia Analitica) a Roma lo scorso 28 Maggio in occasione della Presentazione della monumentale biografia per antonomasia del Cardinale gesuita scritta da Marco Garzonio (Il Profeta, Mondadori, pp. 471), lavoro che mi obbligò a rileggere molte opere del Nostro, Martini è molto perspicuo: «non puoi rendere Dio cattolico», poiché lo è già, grazie alla sua più iridescente creatura che la Chiesa è. Voler estrapolare un significato contrario all’affermazione di Martini, significa attuare un’operazione doppiamente pericolosa: leggere il suo pensiero in una maniera molto superficiale e, per gli addetti, ai lavori, scardinare il principio di non-contraddizione, che scardinabile non è, soprattutto per le proposizioni linguistiche verbali. Ora, leggere il pensiero martiniano in maniera superficiale è un’arte che lasciamo, eventualmente, a chi è costretto a farlo in treno. Far dire a Martini ciò che non ha mai detto, sorvolando il principio di non-contraddizione che tiene ferma qualsiasi parola nella sua propria verità, significa chiedere a noi filosofi e teologi l’impossibile.
Quando Papa Francesco dice a Scalfari: "Io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio", cosa vuol dire?
Padre Pasquale: Anche l’affermazione di Papa Francesco va interpretata tenendo presente che l’attributo «cattolico» è una caratteristica della Chiesa, non di Dio. Il Santo Padre ha ragione di ribadire che «esiste Dio» e, infatti, precisa tutti i nomi attributivi che la fede cattolica, leggendo fedelmente la Sacra Scrittura, ha imparato ad utilizzare per “chiamare” Dio sono: «il Padre, Abbà, la luce, il Creatore». È impressionante la lucidità con la quale Papa Francesco – non a caso pure lui Gesuita – si inserisce, nel dibattito con Scalfari – all’interno della più genuina e mai interrotta «professione di fede» della Santa Chiesa Cattolica quando, nel Credo diciamo: «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero», parlando di Gesù Cristo, ma per converso, dichiarando l’essenza di Dio, visto che tutto ciò che sappiamo di Dio ci è stato rivelato dal suo Figlio Gesù Cristo (Dei Verbum n. 2). Ora, trattasi di un’operazione anche teoreticamente più semplicistica affermare «io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti» – come arguisce Eugenio Scalfari –, senza anche dichiarare il ciò che costituisce la sostanza la cui forma gli enti assumerebbero dall’Essere. Eppure, questa smagliatura brachilogica di ragionare trova una sua minimale spiegazione perché anche il credente sarebbe costretto a sillabarla così se Dio non si fosse rivelato in Gesù Cristo e, per questo, di lui possiamo dire che è Padre, luce, Creatore. Il credere in Dio fa riposare la mente. Il non credere la fa esplodere perché l’uomo, trascendentale di se stesso, è spinto, lo voglia o no, al trascendente.
E' sbagliato dire che esiste un unico Dio per tutte le fedi religiose?
Padre Pasquale: La risposta alla terza domanda è molto più importante perché mi offre la possibilità di precisare, in sintesi, la dottrina «cattolica» in merito alle religioni non cristiane. Lo schema è quadripartito: esiste una posizione teocentrica, cristocentrica inclusivista, cristocentrica esclusivista, ecclesiocentrica. La prima afferma che è sufficiente credere in Dio per salvarsi, indipendentemente dal nome. Dà, quindi, per presupposto che esista un unico Dio, senza sillabarne il nome. Ma esiste un «Dio senza nome»? Visto che non c’è nulla di più grande al mondo che rispondere a quella domanda che nessuno si pone. La seconda (cristocentrismo inclusivista) afferma che tutti si possono salvare in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo e degli uomini, anche di quelli che vivono inconsapevolmente in altri riti religiosi, come potrebbe essere una mamma che in Papua Nuova Guinea – soltanto per ricorrere a un qualsiasi esempio – fa di tutto per allattare il suo bambino pur non avendo mai sentito parlare di Gesù Cristo: essa, non battezzata, si comporta da cristiana senza sapere di esserlo. È – direbbe un altro famoso Gesuita quale fu Karl Rahner (1904-1984) – una «cristiana anomina». Il cristocentrismo esclusivista afferma che ci si salva se e soltanto se si viene battezzati in Gesù Cristo ed era particolarmente in voga ai primordi della Riforma protestante. Infine, vi è l’ecclesiocentrismo, secondo cui ci si salva soltanto se si fa parte ex-professo della Chiesa, cattolica, o ortodossa o protestante. La sana dottrina della Chiesa Cattolica da sempre – non solo dal Concilio Vaticano II – ha fatto proprio il cristocentrismo inclusivista, perché ha sempre parlato di un «battesimo di desiderio» – quando non fosse possibile ottenere quello per immersione o per infusione – e di un «desiderium naturale videndi Deum». Ora, Papa Francesco con un linguaggio perfettamente in linea alla Tradizione ha ribadito ciò che la Chiesa ha sempre professato, addirittura precisando «credo in Gesù Cristo, sua [di Dio] incarnazione», inibendo, quindi, qualsiasi possibilità che esista un unico Dio per tutte le fedi religiose. Ovvero: sì, e porta il nome di Gesù Cristo. Il gheriglio teoretico di tutta la questione sta qui: in quale vero Dio potrebbe credere un uomo che pensa e che opera il bene se non in quel Dio che, compromettendosi in modo irreversibile proprio con l’uomo, si è incarnato nel suo unico Figlio, in quella stessa carne di cui noi siamo fatti? Un francescano, come lo scrivente, “sente” come propria la veridicità pulsante di tutta questa affermazione, utilizzando questa metafora: quando nasce un bambino, in quegli occhi Dio Padre ha già intravisto gli occhi del suo proprio Figlio in una luce che è lo Spirito, perché ognuno di noi nasce in carne. Tutto ciò registra ancora di più la necessità e l’importanza del battesimo – e, quindi, dell’annuncio missionario cristiano, come giustamente ha ribadito San Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio – perché solo nel battesimo quella mamma della Papua Nuova Guinea capisce che nel dare il latte al figlio, non solo sfama il figlio, ma, nel farlo, è amata da Dio e Dio, in questo senso, “protegge” quel filo d’amore affinché rimbalzi meritoriamente nell’eternità e non resti un alcunché “di fatto” invano.
Padre Gianluigi Pasquale puntualizza poi: «Vorrei concludere con due ultime osservazioni. La prima è questa: anche quella teologia che potesse sembrare la più difficile, in realtà viene “esaurientemente” compresa dalla semplicità di vita delle mamme e dei papà quando, chiudendo alla sera gli occhi ai loro bambini, capiscono che Dio sta nell’incrocio dei loro sguardi con quello del proprio bimbo. Quello sguardo potrà avere un nome “anonimo”, ma il tutto ci riesce più semplicemente intuibile se lo sguardo viene sintonizzato con il “vagito di Betlemme”, con quel Bambino che nacque in carne come tutti i nostri pargoli».
La seconda osservazione, prosegue il docente della Pul, è questa: «Colui che dinanzi a certe affermazioni dell’attuale Pontefice volesse estrapolare una filigrana teologicamente aliena dalla Tradizione costante della Chiesa e alla fine metafisica che regge tutta la dottrina cristiana è colpito da una “magna hallucinatio” (ossia è abbagliato) da quel pensiero liquido e debole che – se posso permettermi di superare Zygmunt Bauman (*1925) – è il mero risultato dello stare tutto il giorno con gli occhi davanti allo schermo al plasma di uno smartphone assieme a una specie di concentrato di verità derivato dalla sintesi di opinioni che uno si fa dai vari blog. Chi è entrato in questo liquame del pensiero, però, ha già rinunciato ad essere un homo sapiens: sa vedere, non leggere, sa sentire, non comprendere. E così arriva ad essere convinto che Martini o Bergoglio abbiano detto che «Dio non è cattolico». Peccato, queste persone sono state «vinte» da quel mondo virtuale che le fa scivolare sulla «virtualità» di una buccia di banana, così allogena alla realtà divina di quella mamma che ogni sera va a letto preoccupata di come sfamare, curare e guarire il suo bimbo. Ossia nell’attuare i tre «verbi» più utilizzati da Gesù. Francesco (d’Assisi) «uomo cattolico e tutto apostolico» (Fonti Francescane) lo aveva compreso per bene».