Il problema non è se la Chiesa debba essere o no presente nella vita sociale, è se queste strade sono quelle del potere o quelle dei poveridi Paola Springhetti
Ha ragione Giorgio Bernardelli a scrivere che Papa Francesco sta dettando un programma di azione sociale, che ci costringe a fare i conti con la dottrina sociale della Chiesa, troppo frettolosamente dimenticata degli ultimi anni, nel nome di una presenza forte della Chiesa stessa nella politica. Politica in senso stretto, quella dei partiti.
Mi fa sorridere quando vedo qualcuno che dà del "comunista", al Papa. È un’idea talmente paradossale che finisce col rivalutare il comunismo. E comunque rivaluta tutti coloro che, negli ultimi decenni, hanno difeso i poveri, lottato per la giustizia sociale, chiesto che venisse riconosciuta la dignità della persona, di tutte le persone.
Ogni tanto qualcuno dà del comunista a don Giovanni Lamanna, che da pochissimo ha lasciato la presidenza del centro Astalli a Roma; è stato definito comunista don Ciotti negli anni novanta; don Luigi di Liegro negli anni ottanta; e via via risalendo fino a don Milani. Per citare solo i preti e mettendo tra parentesi i laici. Comunisti perché hanno ricordato i diritti dei profughi, combattuto la mafia, accolto i malati di Aids, chiesto l’istruzione per tutti.
La Chiesa ha un lunghissima tradizione a fianco dei poveri e degli ultimi, fatta anche di persone che non si potevano definire comuniste perché il comunismo ancora non era stato inventato, ma a cui si è resa comunque la vita difficile perché facevano paura. Basti pensare a Don Bosco e ai santi sociali dell’ottocento o a tutti coloro che nei secoli hanno fondato ordini e creato istituzioni per curare gli ammalati, dar da mangiare agli assetati e così via, fino a quel Francesco il cui nome nessun Papa aveva finora voluto indossare. In Italia, lo Stato sociale lo ha inventato la Chiesa, che oggi dà il suo bel contributo per tapparne i buchi.
Insomma, la Chiesa non si è limitata a indicare soluzioni, le ha messe in atto. Ha cambiato la storia.
E, facendolo, ha anche costruito degli imperi. Ha cercato il potere e si è identificata con esso. Come scrive Severino Dianich nel suo ultimo libro ("La Chiesa cattolica verso la sua riforma", Queriniana 2014), in passato ha legato l’evangelizzazione e la missione con la conquista del riconoscimento da parte degli Stati e troppo spesso si è preoccupata più dei rapporti tra vertici (cioè tra potenti), che tra popoli (cioè tra poveri).
Per ogni membro della Chiesa che sceglieva la povertà, ce n’era uno che sceglieva la ricchezza; per ogni perseguitato, c’era un persecutore… Per questo quelli che hanno scelto la via evangelica della povertà sono sempre stati scomodi, pericolosi, comunisti: stavano all’opposizione rispetto al potere.
Se oggi tra i non credenti c’è qualcuno che apprezza la Chiesa è grazie alla Caritas, al volontariato, alle case famiglia, ai centri di accoglienza, agli oratori, ai preti di strada, ai missionari, ai cooperanti. Se ci sono molti che pensano che la Chiesa sia un danno per il Paese è a causa di decenni di alleanze politiche fatiscenti, di un patrimonio immobiliare incalcolabile, di strutture sanitarie malgestite, di carriere ben pagate, di silenzi complici su ingiustizie palesi.
Allora il problema non è se la Chiesa debba essere o non essere presente nella vita sociale del paese, anche indicando strade concrete: l’ha sempre fatto e continuerà a farlo. Il problema è se queste strade sono quelle del potere o sono quelle dei poveri, e se le percorre con la libertà e la credibilità di chi è nel mondo ma non del mondo, o con la sicumera di chi il mondo lo vuole conquistare.
Credo che sia questo il bivio su cui ci sta collocando Papa Francesco.