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Francesco e Benedetto: dove c’è ortodossia, c’è riforma della Chiesa

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L'Osservatore Romano/AFP

Jorge Traslosheros - pubblicato il 04/11/14

Riflessioni su alcuni luoghi comuni circa la riforma e i papi attuali

Identificare Francesco come un papa riformatore è ormai diventato un luogo comune, bisogna ammetterlo. Ad ogni modo, per la sorpresa di alcuni, lo è stato anche Benedetto XVI. Ciò che affermo sembrerà strano a quanti amano misurare gli eventi ecclesiastici con gli strumenti precari della geometria politica, ma non lo è affatto quando li apprezziamo in base alla loro logica.

La storia della Chiesa ci mostra che il suo stato naturale di esistenza è la riforma, e che i suoi problemi in genere derivano dalla perdita del suo impulso. In ogni epoca ci sono vari processi riformatori che si muovono a ritmi e intensità diversi, con vari protagonisti, affrontando problemi specifici. A volte sono laici a guidarli, altre volte chierici, religiosi, vescovi o papi, uomini e donne. La storia ecclesiastica è ricchissima da questo punto di vista, e noi che ci dedichiamo a studiarla non finiamo mai di sorprenderci. Ci sono momenti in cui i processi si accelerano in modo drammatico, come nel XII secolo a seguito delle riforme di San Gregorio VII (un lungo processo che non possiamo sintetizzare in questa sede). E ovviamente, nella nostra epoca prima e dopo il Concilio Vaticano II. Sono momenti di grande dinamismo, di incontri e disincontri gravi che richiedono il lavoro di varie generazioni. Proprio quello che abbiamo vissuto dalla fine del XIX secolo nella Chiesa cattolica apostolica romana.

In nessuna epoca il processo di riforma nella Chiesa ha significato conformarsi alle tendenze del tempo. Se fosse stato così, San Gregorio VII si sarebbe sottomesso alla volontà dell'imperatore germanico, rinunciando all'indispensabile lotta per l'indipendenza della Chiesa, e San Francesco sarebbe stato forse un gentile e simpatico commerciante di Assisi, ma mai il giullare di Dio. O ancora, San Francesco di Sales sarebbe diventato un catto-calvinista, o protogiansenista, senza esplorare il potere della parola scritta, e San Giovanni Bosco un bonaccione promotore della rivoluzione industriale torinese, ma non il rivoluzionario dell'educazione che è stato. Lungi dal conformarsi, ciascuno di loro ha trasformato la Chiesa e ha segnato la storia dell'epoca che hanno vissuto. Gli esempi abbondano. Il mio desiderio è solo quello di alimentare la curiosità del lettore.

Bisogna andare più alla base della tensione di trasformare il mondo senza diventare parte del mondo, senza mondanizzarsi, come direbbe papa Francesco. Pensiamoci. Se la questione fosse tanto semplice come negoziare con le mode attuali senza assumere rischi, allora Gesù non sarebbe mai stato crocifisso, la resurrezione non sarebbe avvenuta e la redenzione non sarebbe all'orizzonte della nostra povera umanità.

Le parole che Benedetto XVI ha pronunciato in Germania nel senso che non è diluendo la fede che diventiamo più moderni recuperano un elemento distintivo della storia della Chiesa, del meglio della sua tradizione teologica, e nel momento attuale risultano profetiche. Se è questo il caso, allora nessuno deve sorprendersi che ciò si inquadri perfettamente nel genio pastorale di Francesco. Bisogna proporre Cristo con creatività, ma dobbiamo assumere che il Vangelo non è comodo oggi come non lo è stato per gli apostoli. Quando diventa conveniente, allora qualcosa nella nostra vita spirituale non va. Diventiamo cristiani grigi, come ha detto il papa.

Deve essere chiaro una volta per tutte. Francesco è un papa riformatore, come lo è stato Benedetto, perché è profondamente ortodosso. Rimando alle sue parole e alla sua testimonianza, non alle chiacchiere mediatiche. Più sono ortodossi i papi, meglio rispondono alle necessità di riforma della Chiesa, come nel caso di Giovanni XXIII e Paolo VI, per parlare del Concilio Vaticano II. Ortodossia non significa tradizionalismo, misoneismo, orrore per la novità, ma fedeltà a Gesù, il cui Vangelo deve incarnarsi in ogni generazione e in ogni cultura, esperienza della quale si nutre la tradizione nella Chiesa intesa come forza vitale della sua storia. La tradizione è sempre innovativa perché implica un processo di recezione da parte della nuova generazione di ciò che offre quella precedente, di adattamento e rinnovamento di fronte alle sfide sempre nuove e il fatto di riproporla alle generazioni successive. E così via per duemila anni. Questo processo dinamico che vive necessariamente la tradizione è ciò che ci permette di comprendere il significato preciso e profondo dell'ortodossia come una realtà sempre collocata nella storia e in ogni persona. Come ha detto bene Ratzinger, dove c'è tradizione c'è rinnovamento, dove c'è ortodossia c'è ortoprassi. Per questo, è corretto affermare che tradizionalismo e tradizione sono termini del tutto opposti, come lo sono ortodossia e misoneismo (orrore per la novità). Mentre il tradizionalismo è la voce morta dei vivi, la tradizione è la voce viva dei nostri padri in noi, come lo saremo noi nei nostri figli. Mentre il misoneismo è il rifiuto irrazionale della novità, l'ortodossia è l'avventura del pensiero per assumere le nuove sfide e agire correttamente, se è necessario con audacia.

Per questo, l'analisi che privilegia la geometria politica sulla storicità della Chiesa finisce per spiegare poco e generare confusione. Si comprende che possa accadere quando la riflessione proviene da politologi o giornalisti laici, il che rende necessario spiegare e dialogare, ma risulta poco, molto poco accettabile in analisti che si definiscono cattolici, men che meno quando si pongono come gli “autentici cattolici”. Si tratta, quindi, di un grave errore di metodo la cui conseguenza è, ad esempio, tacciare Francesco di essere “progressista” in opposizione a Benedetto “il tradizionalista”.

Per evitare dibattiti oziosi, mi sembra necessario comprendere cosa implica davvero una riforma nella Chiesa. Yves Congar, teologo di spicco tra i tanti del XX secolo, perito del Concilio nominato direttamente da Giovanni XXIII, amico personale di Paolo VI, collega di Joseph Ratzinger nella Commissione Teologica Internazionale e anche cardinale creato da Giovanni Paolo II nel 1993, ha pubblicato nel 1952 il libro “Vera e falsa riforma nella Chiesa”, opera che all'epoca fu anche motivo di persecuzioni, come quelle subite da de Lubac o Von Balthasar. Con grande senso della storia, Congar ha identificato cinque elementi costanti nei processi di riforma nella Chiesa:

1.- Rispetto illimitato per i tre elementi costitutivi della Chiesa come sono la rivelazione articolata nella dogmatica, i sacramenti e la costituzione gerarchica.

2.- La critica franca, leale e propositiva, il che mette da parte le chiacchiere della stampa secolare.

3.- Profonda serietà intellettuale, che è l'opposto delle idee occasionali, per quanto possano sembrare spettacolari sulla stampa o nei corridoi.

4.- L'inserimento attivo dei laici, rinunciando a qualsiasi forma di clericalismo, inclusa quella comune tra i laici clericalizzanti sempre tanto disposti ad allontanarsi dai loro impegni e ad affibbiarli ai parroci, ai religiosi e ai vescovi, per poi accusarli di incompetenza. Ve lo dice un laico non esente da questo peccato.

5.- Il ritorno alle fonti originali della fede, per proporre il Vangelo con freschezza nei tempi attuali.
Mi sembra che quanto detto mostri chiaramente perché i papi Francesco e Benedetto sono stati grandi riformatori, ciascuno nel proprio stile, come anche perché il loro magistero si regoli come fini pezzi di orologeria. In altre parole, ciò che Benedetto è stato per la teologia Francesco lo è per la dimensione pastorale di una Chiesa globale.

Vorrei terminare le mie riflessioni con un appello al senso comune, il volto più bello della ragione. Chi crede alle chiacchiere per cui Francesco sminuisce o distrugge la Chiesa per le sue posizioni “progressiste” commette un grave errore, come lo commette chi considera Benedetto un “tradizionalista”.

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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