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Perché la sofferenza di un innocente non giustifica il tuo rifiuto di Dio?

a woman who suffers – it

Muffinbasket / Flickr / CC

Catholic Link - pubblicato il 30/10/14

Soffro, quindi dubito di Dio. Come confutare questa argomentazione?

di Daniel Prieto

Forse il problema del male è l’argomentazione più provocatoria e valida di quanti non credono in Dio. La Chiesa, quando riflette seriamente su questo problema, lotta per non cadere nell’ingenuità delle risposte scadenti. Lo sappiamo tutti, il male è un mistero troppo grande per pretendere di risolverlo in un discorso, anche per il credente. Per questo, l’apologetica che lo affronta come se fosse un problema in cui basterebbero un paio di sillogismi per smontare la sua paradossalità capisce poco o niente della densità che la sofferenza morale e fisica arreca a quanti percorrono l’impegnativa valle di lacrime.

Anche così, la Chiesa sofferente, quella che completa le sofferenze di Cristo, non smette di riflettere con acume sulla questione, cercando quelle ragioni che le permettono di avvicinarsi con reverenza a questo tremendo mistero per gettare un po’ più di luce su quello che San Paolo definiva “misterium iniquitatis”. Il video che presentiamo oggi cerca di essere un po’ di quest’ultimo più che dell’altro. Perché lo sappiamo bene, non è solo la Chiesa a cadere nel gioco delle argomentazioni semplicistiche, dei sillogismi freddi e astratti che neanche lambiscono il problema. Anche molti degli atei frenetici che si dibattono in questo campo argomentano senza soppesare seriamente la portata delle loro affermazioni.

Come ricorda bene il video, la ragione autosufficiente e chiusa diventa incapace di decifrare la realtà, e quindi resta sterile di fronte ai problemi stessi che pone. Non accogliendo quel Logos insito nelle cose che la supera e che si pone come punto di paragone (e riferimento), cancella qualsiasi seria possibilità di porre la questione del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo… La ragione che non va al di là di sé diventa incapace non solo di ascoltare e di aprirsi al dialogo, per mancanza di sostentamento, ma resta senza il potere di dare una risposta solida a quanti hanno bisogno e cercano disperatamente un senso di fronte al dramma del male. Quest’ultimo è forse l’aspetto più triste e crudele del suo falso realismo.

Cosa dire di fronte al mistero del male?
Senza un punto di partenza che vada al di là del sillogismo stesso e che ci permetta di guardare il problema con uno sguardo nuovo, non potremo uscire dal circolo vizioso che ci porta a passare dalle opposte conclusioni alle opposte premesse, ma quando arriviamo davvero a queste, l’argomentazione si interrompe e invocare una premessa piuttosto che l’altra risulta una questione di semplice affermazione e controaffermazione, di cose che piacciono e che non piacciono, di sentimentalismi. E quando non c’è dialogo possibile, quando tutto resta alla mercè di un emotivismo etico come preannunciava MacIntyre, o di una dittatura del relativismo come sottolineava l’allora papa Benedetto XVI, l’unica via possibile è il silenzio, o la disperazione, o in non pochi casi anche la violenza.

Come potremmo rispondere alle esigenze di un mondo che non solo si rivela come “cosmos” in quanto ordine e armonia che non abbiamo costruito (piuttosto ricevuto come dono, come creazione), ma che inoltre ci si presenta come “cosmo” in quanto disordine e rottura (del quale fa menzione San Giovanni), ovvero “il mondo umano come storicamente si è sviluppato: in esso corruzione, menzogna, violenza sono diventate, per così dire, la cosa ‘naturale’”? E così anche da questo punto di vista la domanda si trasferisce verso il centro di questo grande paradosso: come rispondere all’uomo che, libero, si manifesta come il grande generatore di rotture? Come rispondere alle esigenze e indicazioni dell’uomo, che dalla sua esistenza drammatica manifesta quella libertà che supera ogni calcolo, quella polarità dentro di sé che rivela l’infinito mistero che egli è per sé? Qual è la chiave ermeneutica per interpretare quella tensione che vive tra la sua grandezza e la sua piccolezza, tra il suo sperimentarsi come un mostro miserabile capace delle cose peggiori e allo stesso tempo come un essere quasi divino capace delle cose più sublimi, un re spodestato, come descriveva bene Pascal? La tensione interiore verso l’infinito, che cozza con l’impotenza della sua fragilità, dei suoi peccati e dei suoi limiti, e infine con la morte. Di fronte a tutto questo, come risponderà la pura ragione, la ragione senza Dio?

È qui che per noi cattolici sorge il punto culminante, quello che dà il colpo di grazia e ci permette di dar spazio a un’apologetica che non si risolve attraverso “argomentazioni” o “spiegazioni”, ma che si propone come una presenza, come un evento o incontro. Non si tratta di un “qualcosa da dimostrare”, ma di un “Qualcuno da mostrare”. Già lo diceva con profondità profetica il poeta francese Paul Claudel: “Dio non è venuto a sopprimere il dolore, non è venuto a spiegarlo, ma è venuto a colmarlo della sua presenza”. Ecco la chiave e la risposta cristiana di fronte al mistero del male.

È il mistero che entrando in contatto con il mondo ci dà una luce nuova per decifrare il problema. “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). Una verità che si dà nel contatto, nell’esperienza reale e concreta dell’Amore di Dio che assume il “cosmos” da dentro. “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Cristo è la luce vera che viene nel mondo che è tra le tenebre e abitando in noi ci porta la presenza di Dio e dà un senso redentore alla sofferenza.

La Luce della vita entra in contatto con le tenebre del nostro mondo e le vince in una dinamica di misericordia, assumendole in sé: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,4-5). È in Cristo che l’Infinito si unisce con il finito, che l’uomo può entrare in Dio per ricevere una nuova modalità di esistenza, un nuovo sguardo, che dall’amore misericordioso è capace di comprendere e affrontare con speranza la realtà del male in tutte le sue dimensioni. Perché il Signore, con la sua incarnazione, morte e resurrezione, ha fatto brillare la sua luce tra le tenebre; ora la sua luce rifulge in ciascuna delle fessure del nostro mondo. Tutto è stato colmato con il suo Amore. Non c’è sofferenza o esperienza umana che gli sia estranea. Tutto può trovare in Lui un senso perché Lui ha superato i limiti di questo mondo, ha superato il tempo e lo spazio del nostro secolo (incapace di prometterci un’autentica giustizia). Ora Dio ha trasformato il tempo in tempo di salvezza, e così ogni spazio può entrare in contatto con l’eterno. In questo modo ci viene donata la vera possibilità di una vita futura – i cieli nuovi e la terra nuova –, in cui alla fine dei tempi la giustizia raggiungerà la sua pienezza.

La fede integrale, che si manifesta nell’amore, è la chiave d’accesso per comprendere tutto questo, perché ci porta all’adesione vitale al Signore. In Lui e a partire da Lui il nostro sguardo diventa capace di rispondere alla paradossalità della nostra esistenza. L’esperienza di questo incontro con Colui che ha vinto la morte e il peccato è quella che ci permette di affermare con autorità e realistica speranza ciò che il Catechismo afferma al numero 1040:

«Conosceremo il senso ultimo di tutta l’opera della creazione e di tutta l’Economia della salvezza, e comprenderemo le mirabili vie attraverso le quali la provvidenza divina avrà condotto ogni cosa verso il suo fine ultimo. Il giudizio finale manifesterà che la giustizia di Dio trionfa su tutte le ingiustizie commesse dalle sue creature e che il suo amore è più forte della morte».

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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