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La richiesta di lavoro esige risposte, non manganelli

Scontri tra operai e polizia a Roma

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Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 30/10/14

La dottrina sociale della Chiesa impone la responsabilità di tutti nella costruzione del bene comune

E' segno dei tempi che proprio mentre viene elevato all'onore degli altari Papa Paolo VI, i documenti magisteriali come la “Populorum progressio” assumano un valore di vera e propria profezia. Altrettanto profetica è forse l'esortazione che Papa Francesco ha fatto nei confronti di quei movimenti popolari che – in giro per il mondo – lottano quotidianamente per garantire i diritti fondamentali come quelli del lavoro, della casa, della terra. In una parola della dignità umana. Una benedizione che affonda le radici nella lunga tradizione della Dottrina sociale della Chiesa e che ci interroga specie davanti alle immagini della piazza di ieri, quando operai ternani della Fiom che chiedono il lavoro, cioé che lottano per la propria dignità, vengono accolti dal manganello delle forze dell'ordine nel centro della Capitale.

Sia chiaro, nessuna critica verso le forze dell'ordine, né una adesione acritica nei confronti di questo o quel sindacato, ma purtroppo è questo il clima che l'Italia sta vivendo in questo momento: e questo è un tema che interroga i cristiani e in particolare i cristiani che hanno responsabilità in politica come in economia.

Ecco allora che ritornare con maggiore attenzione sul magistero della Chiesa in tema di diritti sociali ci aiuta a capire come leggere questi tempi, il senso di inquietudine che viviamo è figlio dell'iniquità che l'Occidente ha costruito nel tempo. Iniquità – è bene ribadirlo – che è causata dal Peccato per il credente, ma a cui l'uomo può porre rimendio con la sua azione quotidiana.

Rileggiamo allora alcuni punti dell'enciclica “Populorum progressio” che al punto 6 ci dice esplicitamente che: “Essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, la salute, una occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini; godere di una maggiore istruzione; in una parola, fare conoscere e avere di più, per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi, mentre un gran numero d’essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio tale legittimo desiderio”

Al punto 28 ci ricorda che tutto deve essere orientato al bene della persona “Senza dubbio ambivalente, dacché promette il denaro, il godimento e la potenza, invitando gli uni all’egoismo e gli altri alla rivolta, il lavoro sviluppa anche la coscienza professionale, il senso del dovere e la carità verso il prossimo. Più scientifico e meglio organizzato, esso rischia di disumanizzare il suo esecutore, divenuto suo schiavo, perché il lavoro è umano solo se resta intelligente e libero”.

E' forte infine, ricordiamo che essa venne scritta nel 1967, come la crisi economica, e più ancora sociale, politica e morale che stiamo vivendo in questo ultimo decennio fosse già visibile quasi mezzo secolo fa. Paolo VI al punto 58 inchioda il “mondo libero” (quello marxista era già stato condannato e di nuovo nella “Octogesima adveniens” del 1971) alle sue contraddizioni: “Ciò significa che la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali. I suoi vantaggi sono certo evidenti quando i contraenti si trovino in condizioni di potenza economica non troppo disparate: allora è uno stimolo al progresso e una ricompensa agli sforzi compiuti. Si spiega quindi come i paesi industrialmente sviluppati siano portati a vedervi una legge di giustizia. La cosa cambia, però, quando le condizioni siano divenute troppo disuguali da paese a paese: i prezzi che si formano "liberamente" sul mercato possono, allora, condurre a risultati iniqui. Giova riconoscerlo: è il principio fondamentale del liberalismo come regola degli scambi commerciali che viene qui messo in causa.”

Ecco allora che anche la trattativa salariale rientra in questa ottica? Davvero l'occidente – per esempio – deve rivedere al ribasso il proprio tenore di vita sotto la spinta dei lavoratori asiatici assai più economici? E dov'è dunque la giustizia sociale? La sperequazione tra ricchi e poveri, non solo tra nazioni, ma dentro le nazioni grida verso il Cielo come dice al punto 43 la “Octogesima adveniens”: “Resta ancora da instaurare una più grande giustizia nella ripartizione dei beni, sia all'interno delle comunità nazionali sia sul piano internazionale. Negli scambi mondiali, bisogna superare i rapporti di forza, per giungere ad accordi fondati sulla comune utilità. I rapporti di forza, infatti, non hanno mai garantito la giustizia in modo durevole e vero, anche se in certi momenti l'alternarsi delle posizioni può spesso permettere di trovare condizioni più facili di dialogo. L'uso della forza provoca l'intervento di forze contrarie, donde un clima di lotte che sfociano in situazioni estreme di violenza e in abusi. Ma il dovere più importante della giustizia, e noi l'abbiamo spesso affermato, è di consentire a ogni paese di promuovere il proprio sviluppo nel quadro di una cooperazione esente da qualunque spirito di dominio, economico e politico.”

Ma la Chiesa non si è fermata a Paolo VI – che forse ne è il più autorevole interprete finora – , e nella sua storia non c'è pontefice che non abbia messo al centro della riflessione della Chiesa sulla condizione umana il tema della dignità, dell'equità (Nel suo lungo pontificato Giovanni Paolo II ha scritto: Laborem Exercens, Sollicitudo Rei Socialis e Centesimus Annus). Con grande forza e cogliendo un segno forte di questo tempo umano, Papa Francesco parla oggi di “cultura dello scarto”: verso i poveri, gli anziani, i piccoli. Benedetto XVI coglie invece nella “Caritas in Veritate” (del 2009), al punto 32 il carattere generale e politico del bene comune, come impegno del cristiano verso la società: “Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d'incidenza nella pólis. È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis. Quando la carità lo anima, l'impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno soltanto secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l'eterno. L'azione dell'uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all'edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana. In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni, così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio.”

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