Kate Allat, dalla “sindrome di Locked in” al risveglio. Nel mio corpo c’era «una persona emotiva, ma anche una persona fisicamente presente»
Il 7 febbraio del 2010 è la data che ha segnato la vita di Kate.
39 anni, mamma di tre figli, professionista nel settore del marketing digitale. La sua passione è tutta nella corsa: percorre 100 chilometri a settimana.
Ictus e stato vegetativo
Un giorno la donna accusa fortissimi mal di testa ma il medico la congeda con una semplice emicrania e la prescrizione di un antidolorifico. Poche ore più tardi Kate viene colpita da un ictus causato da un coagulo di sangue formatosi nel tronco cerebrale.
Tre giorni dopo l’ictus Kate si sveglia ed è cosciente ma non è in grado di interagire con il mondo che la circonda. Il suo stato reale viene definito come “sindrome di Locked In”: «Puoi pensare, puoi sentire, ma non puoi dire assolutamente nulla», spiega la Allatt in un’intervista all’emittente televisiva australiana Sbs, ripresa da Tempi.it (26 ottobre), in cui presenta il suo libro-testimonianza, intitolato I Am Still The Same.
Trattamento disumano
I medici sono convinti che Kate è in stato vegetativo «gli infermieri parlavano davanti a me. Abbassavano le loro aspettative su di me». E racconta che un giorno, per il solo fatto che «forse non ero cosciente», fu «lasciata nuda sul sedile della doccia per venti minuti (…). Fu orribile, mortificante».
«Ero mantenuta in vita dalle macchine» dice. E a causa della «paura, l’ansia e il terrore» che «potessero spegnerle», Kate comincia ad avere le alluncinazioni: «Pensavo a cosa sarebbe successo se gli infermieri avessero spento le macchine, mi sentivo così vulnerabile. Non potevo fare nulla.»
Amata dalla figlia
A restituire un primo bagliore di speranza a Kate è una delle sue figlie, che le ha sempre voluto bene come persona e non come "soggetto in stato vegetativo": «Mia figlia India aveva solo 10 anni, ma si sedeva al mio capezzale e balbettava, parlandomi dei compiti di scuola e di assolutamente nulla per 45 minuti, come se niente fosse. Semplicemente parlava con la sua mamma». E da quel momento cambia tutto.
Kate racconta che vedendo «le persone che amavo entrare in terapia intensiva», comincia a versare qualche lacrima. E chi è intorno a lei si rende conto che non è una reazione involontaria. L’amica Jacquie le mette davanti agli occhi un foglio con l’alfabeto: «Mi dissero di provare a sbattere le ciglia, non riuscivo nemmeno a farlo, ma era come un leggero movimento delle palpebre. Una volta per dire sì e due per dire no». Ed ecco che, poco dopo, Kate è in grado di comporre la parola “sonno”. «Volevo dire loro che non riuscivo a dormire la notte. Fu il momento più euforico».
Oggi Kate ha recuperato quasi a pieno le sue funzioni, ma non a tutti accade. Per questo ha deciso di fondare un’associazione per aiutare chi vive questa grave difficoltà «Si deve sempre partire dall’ipotesi che sono tutti consapevoli, fino a quando non si ha una prova contraria, e non viceversa».
In quel corpo c’è una persona presente
Kate oggi è portavoce di tutte quelle persone che sono vive ma non possono esprimersi e lo racconta in un’altra intervista al DailyMail «I dottori dovrebbero fare il test della “Scala del coma di Glasgow”, che serve a controllare lo stato di coscienza. Abbiamo bisogno di un infermiere formato in terapia intensiva che può, quando qualcuno è in stato di minima coscienza, sedersi con lui per due o tre volte alla settimana. Per stabilire una comunicazione, se possibile. Per cercare di calmare il paziente e alleviare le sue paure». Perché non solo «c’è una persona emotiva, ma anche una persona fisicamente presente».