Riflessioni sull'inizio della settimana...
di Sabina Nicolini
E così mi ritrovo un mondo nuovo di zecca.
Sarà che oggi è lunedì, e le cose devono essere risorte ieri anche loro, perché hanno quell’odore dei vestiti appena comprati, e il colore fresco di una staccionata appena dipinta, quasi surreale. Il lunedì è un regalo. Promessa di una settimana tutta nuova.
Ma oggi non mi perdo in quella teologia del lunedì che l’altra settimana mi ha quasi fatto ritornare a casa prima di arrivare in piscina. Intendo dire che mi ero alzata presto una mattina, per adempiere a quel dovere verso il proprio corpo che si chiama sport, almeno a cadenza mensile voglio dire, e senza pensare troppo avevo afferrato il borsone e mi ero gettata in strada. Per essere aggredita da quell’odore di nuovo, da quel colore brillante che avevano tutte le cose, persino i marciapiedi. E allora avevo sorriso e cominciato, ad alta voce, a decantare la bellezza del lunedì, il giorno in cui l’ordinario ricomincia pieno di vita, e le cose prendono la rincorsa, e io trovo addirittura la voglia di fare un movimento fine a se stesso, avanti e indietro e indietro e avanti in una vasca da bagno. Benissimo. Ma arrivata all’angolo del palazzo mi blocca una constatazione, di quelle fredde e implacabili come possono essere solo le idee senza materia, i principi astratti. Il lunedì la piscina è chiusa. Per lasciare il posto, dopo due secondi di smarrimento, ad un altro principio che la realtà deve avermi donato come un supplemento di bene: sì, ma oggi è mercoledì.
Allora, senza distruggere la teologia del lunedì, ho semplicemente pensato che le cose si fanno nuove, talvolta, anche negli altri giorni della settimana. Così, di sorpresa. Ti vengono incontro, ti entrano negli occhi, nelle orecchie, ti solleticano il naso. Ti fanno le feste come i cagnolini, e forse vorrebbero che tu giocassi con loro come da bambino, quando giocavi con tutto. Rametti, coccinelle, sassolini, polvere, conchiglie. Poi cresci e guardi le cose come se fossero un film, come in uno schermo dove non le senti più. Quasi fosse stato posto un baratro invalicabile tra te e loro.
A metà del Novecento C. Milosz scriveva una bellissima poesia, Speranza:
La Speranza c’è, quando uno crede
che non un sogno, ma corpo vivo è la terra,
e che vista, tatto e udito non mentono.
E tutte le cose che qui ho conosciuto
son come un giardino, quando stai sulla soglia.
Entrarvi non si può. Ma c’è di sicuro.
Se guardassimo meglio e più saggiamente
un nuovo fiore ancora e più d’una stella
nel giardino del mondo scorgeremmo.
Taluni dicono che l’occhio ci inganna
e che non c’è nulla, sola apparenza.
Ma proprio questi non hanno speranza.
Pensano che appena l’uomo volta le spalle
il mondo intero dietro a lui più non sia,
come da mani di ladro portato via.
e mi sembra che il poeta polacco citi a memoria il nostro Montale, che vent’anni prima aveva “scoperto” il tragico segreto del reale. Anch’egli uscendo presto una mattina, in un’aria di vetro:
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Milosz dice che i sensi non mentono. Ma la realtà delle cose per lui è fondata sulla speranza, e non su un’esperienza: “Entrarvi non si può”. Milosz spera in quel mondo nuovo che ho visto anche io: “un nuovo fiore e più d’una stella […]scorgeremmo”. Eppure anche Montale invoca il miracolo di una visione: che la realtà si spieghi, si giustifichi, sia pure autocondannandosi, per svelare il proprio inganno. Le cose si mostrano, sia pure “come s’uno schermo”, sia pure in un’aria “arida”; ma mi corrono incontro, arriveranno, “s’accamperanno di gitto” sotto al mio sguardo, sfuggendo da quel nulla che le tiene in ostaggio.