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Discorso contro la felicità

Felicidad – it

© SHUTTERSTOCK

Enrique Anrubia - Aleteia - pubblicato il 10/10/14

Riflessioni su un luogo comune della cultura attuale

La storia della felicità è uno scherzo. Una distrazione, un discorso prototipo, una risposta anticipata, una favola, e anche se non arriva ad essere una “menzogna” assomiglia più a una chiacchiera che si è stanchi di ascoltare e di non vedere – o di non saper vedere – da nessuna parte. In questo articolo si vuole analizzare la frase “Voglio solo essere felice”.

Questa frase si pronuncia molto e si sente spesso in varie situazioni. Non sveleremo in questa sede cosa sia la felicità, dicendo invece qualcosa di più mondano e quotidiano: se la gente vuole essere davvero felice e se, desiderandolo, è possibile esserlo. Perché questa frase viene pronunciata molto, e con ottime intenzioni e molto sentimento, ma non sembra che si metta tanto in pratica. Qualcuno diceva che se una persona si chiede se è felice allora non lo è, fondamentalmente perché essere felici implica il fatto di non chiedersi se lo si è, ma di esserlo semplicemente. Immagino quindi che chi vi scrive non lo sia.

E questa è la prima analisi della nostra piccola sociologia quotidiana e delle sue contraddizioni: sembra che sia mal visto o generi dubbi il fatto che una persona dica con la massima pace – e sottolineo con la massima pace – “io non sono felice”. Sembra che la cultura in cui viviamo ci obblighi quasi a dover essere felici e a usare tutti i mezzi per esserlo, e chi non lo è o non vuole esserlo viene etichettato: pessimista, cinico, troppo serio, pazzo o semplicemente stupido.

Sinceramente, nessuno è costretto ad essere d’accordo con gli stereotipi della sua cultura. “Io non sono felice”, e non mi considero, né sono considerato dai miei amici, né un cinico né un pessimista o un pazzo.

Lo pseudo-obbligo culturale del nostro mondo di essere felici è ben indicato nella definizione della salute dell’OMS del 1948: la salute è lo “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”. Non conosco una persona che sia un esempio di ciò.

In modo semplice e diretto: io non sono felice e non spendo molte energie per doverlo essere, o per volerlo essere. Ho chiaro di voler essere me stesso, e che essere felice non è un obiettivo prioritario nella mia vita. I pensatori classici – un po’ più svegli di noi – dicevano lo stesso, che la felicità non era un obiettivo raggiungibile di per sé, ma la conseguenza di molte altre cose. E inoltre, se la felicità è uno stato di perfezione, non sembra che si verifichi in questo mondo già solo per la semplice verità che esistono la morte, il dolore e la malattia, per menzionare le questioni più evidenti. Chi cerca la perfezione assoluta si cerchi un altro mondo. Noi abbiamo questo, e inoltre cristianamente è questo il mondo che ha bisogno di essere redento, non un altro.

Uscendo dalla mentalità dominante, sembra che non si possa dire “io non sono felice” dicendolo con pace e normalità senza essere guardati con condiscendenza – “poverino, vorrebbe esserlo e non lo è” – o con incredulità – “è squinternato” – o (ed è l’ipotesi peggiore) sentendosi dire: “dai, non preoccuparti, ti do la ricetta per esserlo”. Io non sono felice e non faccio molti sforzi per esserlo. Di fatto, quando mi sforzo di esserlo lo sono meno.

Teorie, teorie, teorie

Siamo sinceri: c’è gente che dice di esserlo, c’è gente che vuole esserlo e c’è gente che dice di vedere gente felice. Siamo ancora più sinceri: vedo molta gente, quella stessa gente, che non lo è, anche se dice di esserlo, e che in un millisecondo per una circostanza banale passa dall’essere sorridente all’essere arrabbiatissimo, che in un millisecondo scopre che il marito è infedele, e allora le crolla il mondo addosso e deve tornare a sollevarlo (chi ci riesce), o che suo padre è morto (e lì nessuno può farci niente). I più temerari diranno che bisogna avere fiducia in Dio o in qualcosa di più Grande, e che questo dà la possibilità di guardare alla sofferenza in altro modo: non lo discuto, è giusto, ma questa idea conferma proprio che una persona non è felice in questo mondo, che questo mondo non basta per ciò che desideriamo nel caso in cui dobbiamo desiderarlo.

In questa “scoperta”, alcuni ferventi credenti in Dio assomigliano ad alcuni ferventi credenti della “grande cultura del benessere e della felicità”. Sembrano avere la ricetta o la teoria per poter vivere felici. Il caso più significativo è il discorso di un certo tipo di psicologia e l’autoaiuto. La sociologa Eva Illouz si è incaricata di mostrare che il discorso psicologico è diventato famoso a livello mondiale negli anni Cinquanta grazie alle riviste femminili statunitensi. Lasciatemelo dire in modo giocoso: se si legge una rivista femminile attuale, il 50% della rivista è dedicato a dire al lettore o alla lettrice che deve essere se stesso e sentirsi bene con sé, e l’altro 50% a come deve farlo. Se fai questo o quello sarai felice, se senti questo o quell’altro sarai felice, se ti vesti in questo modo, se la pensi così, se mangi così… Scegli, scegli tu, sii te stesso, ma all’interno delle opzioni che ti diamo.

Volete per favore smettere di dirci come ci dobbiamo sentire, pensare e tutto il resto? Smettete di dirci in cosa dobbiamo sbagliarci e in cosa no. Io non sono felice, non voglio essere felice e non ho il minimo interesse ad esserlo per come dipingono le cose. Ciò che voglio o non voglio, ciò che tu vuoi o non vuoi, lo lasciamo a noi stessi e a quanti vivono con noi il nostro quotidiano. Mi sembra che sia un senso molto cristiano della libertà: fai ciò che puoi, ciò che desideri nella misura in cui puoi, e in ciò che vuoi non volere il male di te stesso o di altri, ovvero esiste la misericordia di Dio. Il mondo non sarebbe migliore se la gente facesse questo, e una persona non sarebbe più felice; si sarebbe semplicemente più liberi, più responsabili delle proprie azioni e più consapevoli di se stessi e di coloro che si amano e per i quali ci si preoccupa.

Fai questo e sarai felice. Come te, come un cristiano qualunque o come qualsiasi ateo (che in fondo ancora non sa che vede i comandamenti come la cosa eticamente migliore), io cerco di non mentire, non rubare, non danneggiare, aiutare i miei genitori, non essere infedele… ma fare queste cose non mi porta ad essere felice. Non è una ricetta, perché la vita non ha ricette previe da poter vivere, e anche se le avesse (la tradizione, i costumi, i consigli), una persona sa che ogni situazione nella sua vita è personale e contingente: ciò che mi ha fatto o ti ha fatto bene in quel momento ora potrebbe non farlo e viceversa. Con altri aggettivi e altri riferimenti, accade lo stesso con i discorsi e i libri di autoaiuto: pensa questo, dì quello, se senti questo devi sapere quest’altro. Posso concedere (e lo concedo) che offrano una buona analisi di ciò che facciamo, ma da lì ad essere il passo verso la felicità…

E se, in una fantastica temerarietà contro il mondo e la cultura dominante, dicessimo “la gente in realtà non vorrebbe essere felice?” Perché quello che una persona vede è gente che dice di volerlo essere, e che sembra anche esserlo, e che non smette di andare contro se stessa, di fare danno (in modo consapevole e inconsapevole). E se in fondo la vera domanda dell’essere umano non fosse la felicità ma un’altra cosa? Di primo acchito bisogna avere sociologicamente e individualmente un certo valore (anche se non mi è chiaro di quale tipo) per poter dire “Non sono felice, e non ho molto interesse né voglio spendere molte energie della mia vita per esserlo”.

Il tema ancora non è esaurito, e in seguito continuerò a trattarlo, ma se ciò che io voglio è la felicità dell’altro? E se in realtà non avessi neanche questo potere? E se la felicità fosse un regalo misterioso – cristianamente chiamato “grazia”: gratis e regalo – e non un desiderio o un’esigenza nostra, e men che meno un obiettivo? Lo dico sinceramente: sono domande a caso, non ho risposte, ma la cultura in cui viviamo (cristiana e atea allo stesso tempo) non smette di bombardarci con il discorso del “desiderio di felicità” fino alla nausea.

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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