Le famiglie ultimo baluardo contro il pensiero unico?
L’ideologia gender non esisterebbe. Sarebbero tutte menzogne. Tutto terrorismo psicologico. Tutte paure messe in giro da fanatici ed incompetenti. La replica più frequente a coloro che osano discutere taluni innovativi “progetti educativi” – conformemente a collaudate prassi totalitarie, che riconducono qualsivoglia critica alla patologia – si sostanzia in un invito al ricovero ospedaliero. Se si è tuttavia abbastanza forti da sopportare quest’allergia al dissenso, risulta in realtà semplice non solo individuare il nucleo ideologico della teoria gender, ma anche le insanabili contraddizioni che la paralizzano. Per quanto riguarda il primo aspetto – il riconoscimento dell’ideologia – è sufficiente osservare come il tentativo di combattere le discriminazioni anzitutto di matrice sessista conduca sempre più spesso al voluto equivoco secondo cui, per contrastare le diseguaglianze fra uomo e donna, occorrerebbe negare alla radice le differenze fra i sessi. Differenze che quindi, nella misura in cui fossero anche solo oggetto di semplici studio ed osservazione, diverrebbero potenziali moventi per trattamenti iniqui.
Si spiegano così meraviglie come la svedese Egalia, scuola materna di Stoccolma dove già anni or sono si è pianificata l’abolizione dei sessi coniando persino un pronome neutro, «hen», in luogo dei vetusti – e verosimilmente ritenuti sessisti – «hon» e «han», e prescrivendo per i piccoli il dovere di chiamarsi fra loro «amici», bandendo parole come “bambino” o “bambina”, termini da consegnare al passato insieme alla differenze sessuali. Per quanto possa apparire sorprendente e prima che in una panoramica che pure sarebbe agevole fra autori che teorizzano quanto la scuola materna di Stoccolma ha poi messo in pratica, l”inesistente” ideologia gender è tutta qui: nell’ostinata negazione delle difformità attitudinali fra i sessi, da presentare al mondo come vergognose diseguaglianze di genere, laddove il genere – qui sta un passaggio fondamentale – non include la mera possibilità d’essere uomini e donne; non solo. Una liberazione compiuta dall’oppressione impone infatti anche il superamento della prospettiva binaria maschile e femminile attraverso la forgiatura di un’identità sessuale fluida, definita solamente da una individuale e sempre riformabile percezione di sé.
Al di là di comprensibili perplessità, questa prospettiva si scontra – lo dicevamo poc’anzi – con molteplici contraddizioni. La principali sono essenzialmente tre. La prima concerne la logica definitoria che il concetto di genere vorrebbe oltrepassare e nella quale, in verità, continuamente ricade. Risulta infatti poco sensato da un lato respingere come limitante la distinzione fra maschi e femmine e poi, dall’altro, accettare che per esempio ci si debba riconoscere in una delle 70 differenti opzioni di genere che Facebook mette a disposizione dei propri utenti. E se un soggetto si percepisse simultaneamente come appartenente a più generi o avvertisse come proprio un genere non contemplato da alcuna classificazione? Con quali argomenti, se non ricorrendo all’imposizione, si potrebbe chiedergli di definirsi? Occorre decidersi: o il genere è davvero libero, oppure è solo una volgare parodia di quella distinzione sessuale che si vorrebbe superare. Il problema è che, accettando coerentemente di non poter definire il genere, non solo si archivia il concetto di sesso ma si pensiona anche quello d’identità. Parlare di identità di genere rivela così tutta la sua insostenibile portata ossimorica.
Una seconda contraddizione dell’ideologia gender emerge in quello che pretende di denunciare, ossia l’ingerenza ambientale nella genesi della propria identità. Se finora è esistita una più o meno netta distinzione fra maschile e femminile – sostiene la prospettiva
gender – ciò non è avvenuto in ragione di una natura maschile o femminile, che sarebbe inesistente, bensì a causa di una data cultura. D’accordo, ma se le cose stanno così, se è l’ambiente il responsabile di come ci siamo finora percepiti, com’è possibile non sospettare che sia sempre l’ambiente – e precisamente la cultura occidentale nel 2014 veicolata da università, parlamenti e redazioni, il famoso “Pensiero Unico” – la vera origine della teoria gender? Sulla base di quali elementi, anche senza necessariamente tornare al concetto di natura umana, possiamo con certezza affermare che le imposizioni culturali che si vogliono far uscire dalla porta non rientrino poi dalla finestra con la pedagogia gender? Chi e come può garantire totale liberazione da coercizioni esterne? Anche qui dunque urge intendersi: o le influenze esterne sono sempre negative oppure, se lo sono solo alcune, stiamo ragionando in termini etici; se è così diciamolo, evitando di sbandierare una neutralità di facciata.
L’ultima, vertiginosa contraddizione della prospettiva gender, strettamente collegata alla precedente, riguarda il metodo scelto per la nuova educazione contro qualsivoglia discriminazione: un metodo inevitabilmente a base di cultura, conferenze, libri, incontri nelle scuole. Un metodo oggi così promosso ma che domani – questo, in fondo, si augurano gli artefici della nuova educazione – sarà la stessa famiglia, o quel che ne resterà, a mettere in pratica organizzando insegnamenti che impediscano ai giovani di credere che esistano fondamentali, notevoli ed anche arricchenti differenze fra uomo e donna. Ma in questo modo si soffocherà il fondamentale principio della libertà educativa, andando tragicamente a concretizzare, fra l’altro, quanto lo psichiatra Wilhelm Reich (1897–1957), nel suo Psicologia di massa del fascismo, scriveva della famiglia come realtà organica all’autoritarismo, definendola «la sua fabbrica strutturale ed ideologica». Cosa che non era e soprattutto non è affatto, considerando la dichiarata ed odierna diffidenza di molte famiglie verso la cultura di genere, ma che purtroppo potrebbe diventare, dando quasi un secolo dopo fondamento ai timori di Reich e a quelli dei non entusiasti di una nuova era gender.