Qualcuno potrebbe alla fine convertirsi pur di salvarsi e altri potrebbero addirittura provare a reagire con la forza innescando l’ennesima spirale di violenza. Ma sono alternative queste? Voi in Occidente le accettereste? Dico questo – ha concluso – soffrendo perché, da sacerdote, se perdo la mia gente che cosa mi rimarrà? Amo il mio Paese e non l’ho mai abbandonato neanche nei periodi più bui. Ma queste persone hanno figli ed anche per noi, come per voi, i bambini sono il futuro. Il futuro non deve essere negato a nessuno».
È questa mancanza totale di prospettive – non altro – a spingere gli esuli della Piana di Ninive e delle altre zone dell’Iraq trasformate in un inferno dalla presenza dell’Isis ad affollare al sabato la strada davanti all’apposito ufficio di Erbil per ottenere un passaporto, primo passo per poter emigrare. Sono già più di 10 mila quelli che hanno presentato domanda per un visto al consolato francese. Molti di più vorrebbero andare negli Stati Uniti, dove vive una folta comunità caldea. Così il patriarca Luis Sako – che da anni ormai cerca di evitare l’incubo sempre più vicino di un Iraq completamente svuotato dei suoi cristiani – oggi deve fare appello persino ai suoi preti, perché restino. «Dobbiamo vivere e morire nel luogo dove Dio ci chiama», ha scritto in un messaggio in cui ricorda al clero che nessuno può andarsene senza l’approvazione formale del proprio vescovo. E aggiunge che chi manca all’appello, deve dare conto della sua situazione ai propri superiori entro un mese, altrimenti sarà sottoposto a provvedimenti disciplinari.
Che un vescovo sia costrettoa scrivere un messaggio del genere è la fotografia più impietosa della situazione. Da lontano è estremamente facile giudicare. Ma sarebbe molto meglio domandarsi se stiamo facendo davvero tutto il possibile per risparmiare ai cristiani iracheni anche questo tipo di umiliazioni.